Un caffè con l'Avvocato
Questa pagina del mio Blog sarà dedicata ad "un caffè con l'avvocato", rubrica del mercoledì in cui cercherò di rispondere, in modo semplice e conciso, alle domande e richieste più frequenti che quotidianamente mi vengono poste dai clienti.
Trattasi
di argomenti che riguardano il diritto civile, l’infortunistica
stradale, il recupero crediti, le controversie condominiali, il diritto di
famiglia, il diritto del lavoro e della previdenza sociale. Uno
strumento in cui parlerò di fatti quotidiani, di diritto e quindi anche delle
esperienze personali. Uno
spazio di approfondimento e di riflessione, in cui gli articoli saranno
presentati con cadenza settimanale. Buona lettura 😊 |

Avvocato Maria Immacolata Sica
- iscritta all'ordine degli Avvocati di Nocera Inferiore
- già Perito Assicurativo
- Corso di formazione per Amministratore di condominio
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Il moderno concetto di franchising ha iniziato a diffondersi
negli anni trenta con l'aumento di grandi catene di ristoran ed ha poi visto la
sua espansione negli USA negli anni cinquanta con lo sviluppo delle grandi reti
di fast-food. Il sistema franchising più attuale si applica ormai a tutti i
settori, dalla rivendita al dettaglio ad ogni tipo di servizio.
Il franchising, o affiliazione commerciale, è un contratto atipico, ovvero esso non è direttamente disciplinato dal Codice Civile.
Il Legislatore, infatti, è
intervenuto per disciplinarlo solo in tempi relativamente recenti, con la Legge
n. 129 del 6 maggio 2004, recante «Norme per la disciplina dell’affiliazione
commerciale“. In attuazione della stessa, poi, è stato adottato
il D.M. 2 settembre 2005, n. 204.
Tra le varie
novità introdotte vi è la costante volontà da parte del legislatore di tutelare
l'affiliato, in quanto parte economicamente più debole, e che trova espressione
in una più rilevante presenza di norme "protettive".
L'articolo 1 della legge n. 129/2004 definisce il francising come: "il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all'altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l'affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi".
Il franchising, dunque, è un accordo di collaborazione che vede
da una parte un'azienda con una formula commerciale consolidata (affiliante, o
franchisor) e dall'altra una società o un singolo imprenditore (affiliato, o
franchisee) che aderisce a questa formula.
In quanto accordo commerciale, i soggetti si intendono economicamente e giuridicamente indipendenti, non quindi un rapporto di subordinazione ma un contratto di affiliazione commerciale che prevede oneri e benefìci per entrambe le parti.
Da un lato ci sarà, dunque, una società (franchisor o affiliante)
che possiede un marchio con il quale vende prodotti
o eroga servizi con successo e che, con siffatto accordo, potrà espandere la propria rete, aumentare la
notorietà del marchio e vedere maggiori profitti senza però dover gestire
personalmente ogni punto vendita e senza dover sostenere tutti i costi.
Dall’altro lato, invece, una qualsiasi persona o società (franchisee o affiliato) che, interessata a mettersi in proprio, affiliandosi ad un brand noto e con un sistema gestionale testato sul mercato e semplificato, potrà avviare un’attività con successo anche senza possedere precedenti esperienze nel settore o esperienze imprenditoriali e con bassissimo rischio di fallimenti.
Esistono tre
tipologie di franchising, ovvero il franchising di produzione, il
franchising di distribuzione e il franchising di servizi.
Nel
franchising di produzione, l'affiliante è un impresa industriale che produce i
propri beni e li distribuisce attraverso la propria rete di affiliati.
Questo tipo
di marchio è caratteristico del settore dell'abbigliamento, delle calzature,
accessori, borse , mobili, e si caratterizza perché anche il prodotto è di
marca.
Il franchising di distribuzione è un tipico strumento di commercializzazione di beni in un determinato ambito territoriale.
Invero, qui, il franchisor funge da vera e propria centrale di acquisti. Seleziona i fornitori, acquista grandi stock di prodotto da diversi produttori e li ridistribuisce agli affiliati, i quali riceveranno quale vantaggio quello di avere un unico interlocutore che ha già selezionato per loro i prodotti.
Molto diffuso è anche il franchising di servizi.
In questo caso, non viene distribuito nessun prodotto ma vengono offerti dei servizi, i cui elementi identificativi e i cui termini di offerta sono standardizzati e predeterminati dal franchisor.
Rientra in
questo settore il franchising della ristorazione, dei viaggi, della mediazione
creditizia, dei servizi internet.
Il legislatore con la legge n. 129/2004, ha inoltre previsto una serie di obblighi sia per l'affiliante che per l'affiliato.
Gli obblighi comportamentali riguardano l'affiliante oltre che l'affiliato ed
entrambi hanno il dovere di comportarsi con lealtà, correttezza e buona fede.
L'affiliante
è tenuto a riferire alla controparte ogni notizia che possa rivestire una
importanza fondamentale per l'attività, in modo tempestivo e completo.
La legge
129/2004 non solo dunque disciplina i vari aspetti dell'affiliazione
commerciale, ma definisce gli elementi tipici del contratto in maniera completa
e precisa, cogliendone tutto l'aspetto innovativo.
Anche per oggi il nostro caffè termina qui, Vi aspetto settimana prossima per un nuovo argomento.
(Un caffè con l'avvocato del 05 novembre 2020 a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)
Il comodato è un
contratto “tipico” del nostro ordinamento in quanto la sua disciplina
viene esplicitamente prevista dal codice civile,
che
lo regolamenta agli articoli 1803 e seguenti.
L’articolo 1803 del codice civile stabilisce che “il comodato è un contratto con il quale una parte
(il comodante) consegna all’altra (il comodatario) un bene mobile o immobile,
affinché costui se ne possa servire per un tempo o per un uso determinato, con
l’obbligo di restituirlo. Il comodato è essenzialmente gratuito.”
Anche se, ad una prima ed approssimativa lettura della definizione
codicistica, il comodato possa presentarsi come un rapporto semplice e basato
principalmente su uno scambio di fiducia e di cortesia tra le parti, in realtà
esso è una scelta contrattuale piuttosto complessa, che può determinare molte
volte l’insorgere di diverse problematiche e che, proprio per questo motivo, ha
visto il legislatore concentrarsi in maniera specifica e con norme ben
dettagliate. Ciò nonostante, spesso anche la giurisprudenza ha assunto un ruolo
fondamentale nel chiarire la disciplina di una siffatta particolare tipologia
contrattuale.
Di regola, il comodato è un contratto essenzialmente
gratuito anche se non è esclusa la possibilità di far ricorso a un
comodato c.d. “modale” o “oneroso”, con la sola accortezza che
l’onere imposto dalle parti non debba avere una consistenza tale da far venir
meno la natura tipica del contratto ovvero non dovrà mai trattarsi di un corrispettivo per il
godimento della cosa.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha stabilito che
può essere oneroso anche qualora il comodatario pagasse una somma periodica
come rimborso di determinate spese (Sentenza Corte di Cassazione numero
3021/2001).
Dal contratto di comodato discendono obblighi
specifici per il comodatario (ossia per colui che prende in consegna il
bene). A disporli è l’articolo 1804 del codice civile, secondo cui “il
comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza
del buon padre di famiglia. Egli non può servirsene che per l’uso
determinato dal contratto o dalla natura della cosa. Non può concedere a un terzo
il godimento della cosa senza il consenso del comodante. Se il comodatario non
adempie gli obblighi suddetti, il comodante può chiedere l’immediata
restituzione della cosa, oltre al risarcimento del danno”.
L’articolo del codice stabilisce dunque che il
comodatario dovrà custodire e conservare il bene ricevuto con l’impegno tipico
e dell’uomo medio. Non può inoltre concedere a terzi
il godimento del bene, tranne il caso in cui abbia ricevuto il consenso del
comodante, anche non in forma espressa e scritta.
Il comodatario, secondo quanto statuisce
l’art. 1805, è responsabile se la cosa perisce per un caso fortuito a cui
poteva sottrarla sostituendola con la cosa propria, o se, potendo salvare una
delle due cose, ha preferito la propria. Inoltre, il comodatario che impiega la cosa per un uso diverso o per un tempo più lungo di quello a
lui consentito, è responsabile della perdita avvenuta per causa a lui
non imputabile, qualora non provi che la cosa sarebbe perita anche se non
l’avesse impiegata per l’uso diverso o l’avesse restituita a tempo debito.
Per quanto poi riguarda le spese connesse all’utilizzo del bene, è ancora il codice, all’articolo
1808 a stabilire che è colui che utilizza il bene in comodato a dover sostenere
le spese necessarie per servirsi della cosa senza poterne chiedere il rimborso.
Colui che utilizza la cosa potrà comunque essere rimborsato delle sole spese
straordinarie “sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano
necessarie e urgenti”.
Sul punto si è pronunciata la Cassazione asserendo
che “il comodatario il quale, al fine di utilizzare la cosa,
debba affrontare spese di manutenzione anche straordinarie, può
liberamente scegliere se provvedervi o meno, ma, se decide di affrontarle, lo
fa nel suo esclusivo interesse e non può, conseguentemente, pretenderne
il rimborso dal comodante” (Corte di Cassazione,
sent. n. 18063/2018).
L’obbligo che grava sul proprietario del bene,
invece, riguarda eventuali vizi della cosa data in comodato. Se infatti
questi vizi dovessero determinare dei danni a chi si serve della cosa, il
comodante sarà tenuto a risarcirli se, pur essendo a conoscenza dei vizi, non
ha avvertito il comodatario.
L’articolo 1809 c.c. disciplina la restituzione della cosa alla scadenza del termine convenuto,
stabilendo che il comodatario dovrà procedere alla riconsegna del bene. Se
tuttavia, durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato
di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e improvviso bisogno al
comodante, questi può esigerne la restituzione immediata.
Nel caso in cui nel contratto di comodato d’uso non
sia previsto un termine per la restituzione del bene, l’art. 1810
c.c. stabilisce che il comodatario è tenuto a restituirla non appena il
comodante la richiede.
D'altra parte, lo stesso diritto di richiedere la
restituzione immediata della cosa, sussiste nell’ipotesi di morte del
comodatario. In questo caso il comodante potrà domandare agli eredi l’immediata
restituzione anche se era stato convenuto un termine per la restituzione non
ancora scaduto. A stabilirlo è l’articolo 1811 del codice civile.
Inoltre, Il contratto di comodato non è sottoposto a
particolari formalità e può essere quindi stipulato in forma verbale. La forma
con la quale esso è concluso, tuttavia, non è del tutto irrilevante, specie
quando l'oggetto del contratto sia un bene immobile.
Invero, qualora l’oggetto del contratto di comodato fosse rappresentato da beni immobili esso sarebbe soggetto a registrazione presso l’Agenzia delle Entrate entro 20 giorni dalla data dell'atto se il contratto è stato redatto in forma scritta. Nel caso in cui, invece, il comodato sia stipulato verbalmente, la registrazione è necessaria solo se lo stesso sia enunciato in un altro atto sottoposto a registrazione.
Con l'auspicio che l'argomento sia stato interessante per tutti quanti voi, Vi rinnovo l'appuntamento a mercoledì prossimo sempre con "un caffè con l'avvocato". Ciao!
(Un caffè con l'avvocato del 21 ottobre 2020 a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)
Benvenuti al nostro caffè del mercoledì.
Oggi parleremo di "rumori molesti in condominio: come tutelarsi?"
Vivere in condominio, come ben sappiamo, non è
sempre facile. Tante sono le problematiche che portano a discussioni tra i condomini. Una delle diatribe più frequenti è
quella relativa alla problematica
dei rumori.
Le attività rumorose in condominio, infatti, non di
rado sono causa di diverbi e malumori tra i condomini in quanto generano
fastidi e stress per chi si trova a subirne le conseguenze e ciò rende, a
volte, insopportabile la convivenza all'interno dello stesso stabile.
In generale, si definisce molesto quel rumore che
turba il riposo e la quiete delle persone. Normalmente si parla di soglia
di tollerabilità quando il livello medio del rumore di fondo supera i
3,5 decibel. Questo parametro è principalmente il frutto di una elaborazione
giurisprudenziale in quanto il Codice civile, all’art. 844, stabilisce solo che
«non si possono impedire i rumori che non superano la normale
tollerabilità», pertanto i suindicati limiti di decibel sono stati ritenuti
dalla Corte di Cassazione come un punto di riferimento perfetto per venire
incontro alle esigenze contrapposte dei contendenti. In questo modo, una
definizione ampia di rumore molesto lascia un notevole margine
decisionale al giudice che può valutare caso per caso il danno reale apportato
dal disturbo ed agirà, a seconda del caso, per verificare l’intollerabilità del
rumore prendendo in considerazione vari aspetti come l’insistenza, l’entità del
rumore e il luogo in cui esso si verifica.
Ma quali sono questi rumori molesti? Semplificando,
si possono far rientrare in rumori molesti tutti quei comportamenti più comuni
che per loro natura causano danno agli altri
come ad esempio: cani che abbaiano a tutte le ore, radio e tv ad alto volume, feste
protratte fino a tarda notte, motore
dell'automobile acceso a lungo, rumore di tacchi, pianto dei bambini, utilizzo
di martelli pneumatici o altri strumenti rumorosi.
Anche nel caso
di lavori di ristrutturazione di
un appartamento all'interno di uno stabile si devono seguire delle regole ben
precise. Il buon senso impone che tali lavori non debbano essere eseguiti nelle
fasce orarie destinate al riposo, nel fine settimana e nei giorni festivi. Laddove vi sia necessità di lavorare negli
orari vietati, il condomino interessato è obbligato a chiedere una deroga
all'amministratore che a sua volta provvederà ad avvisare tutti gli altri condomini.
Al di là di tutte le
predette considerazioni, se il rumore è insopportabile e il vicino non ne vuole
sapere, cosa si può fare? Per tutelarsi da queste situazioni
fastidiose è necessario, in primo luogo, verificare
se nel regolamento condominiale esiste una clausola inerente
ai divieti di attività rumorose. Nel caso in cui essa sia effettivamente
presente, sarà necessario constatare se l’attività rumorosa coincida
effettivamente con quella vietata. Solitamente, il regolamento
condominiale stabilisce le ore destinate alla quiete e al riposo ovvero le
fasce orarie in cui è possibile far rumore che vanno dalle ore 8.00 del mattino
fino alle 13.00 e dalle ore 16.00 del pomeriggio fino alle 21.00. Al di fuori
di queste, ogni rumore e schiamazzo può essere contestato in sede di assemblea
condominiale. Ovviamente ogni condominio sceglie in modo autonomo questi orari
che possono variare in base alle stagioni o alle esigenze degli abitanti.
Orbene, se il regolamento parla chiaro, non ci sono
problemi e ci si può rivolgere all'amministratore
di condominio, il quale ha facoltà di chiedere verbalmente o tramite lettera
raccomandata la cessazione del rumore molesto in quanto è legalmente
obbligato a far sì che i condomini rispettino il regolamento condominiale anzi,
in caso di violazione di una norma, è tenuto a richiamare il condomino responsabile del problema e
questi, laddove il regolamento lo preveda, potrebbe essere finanche sanzionato.
Laddove, invece,
nonostante il tentativo di dialogo con l’interessato, l'azione
dell'amministratore cade nel nulla ed il condomino continua ad avere un
atteggiamento reiterante, è consigliabile rivolgersi ad un avvocato che, dopo
aver diffidato il responsabile, lo citerà in un regolare giudizio ai fini
del risarcimento del danno e
dell’inibitoria, ossia
l’ordine ad interrompere il rumore.
Evidentemente, in questi casi, non basta
solo la testimonianza dei condomini ai quali viene arrecato il danno, ma sarà
necessaria l’effettuazione di una perizia fonometrica redatta
appositamente da un tecnico specializzato.
Grazie a questo intervento potrà essere stabilito con
certezza se il rumore può qualificarsi come molesto perché supera la normale
soglia di tollerabilità.
Il giudice, prima di decidere, dovrà tenere in considerazione una serie di
parametri ben definiti come: la collocazione dell'appartamento, l’intensità del rumore, la persistenza del rumore, l’orario in cui il rumore viene prodotto.
Se il magistrato riconosce l'illecito civile, può condannare il colpevole per rumori molesti ed emanare un'ordinanza attraverso la quale ordina l'immediata cessazione delle molestie acustiche.
Attraverso un ricorso d'urgenza si può altresì stabilire in via equitativa un risarcimento a favore della parte lesa e l'ammontare è a totale discrezione del Tribunale.
Il giudice può stabilire anche un risarcimento in base all'articolo 2043 del codice civile qualora si riesca a dimostrare che è stato riportato un danno effettivo a causa del comportamento del vicino. Sul punto, la Corte di Cassazione, con una sentenza del 2016, ha stabilito che il caos generato dai vicino può dar luogo a un'effettiva compromissione dello stato psico-fisico della parte lesa.
E’ bene rammentare che i rumori molesti possono finanche integrare gli estremi di un vero e proprio reato: quello di disturbo alla quiete pubblica di cui all’art 659 del codice penale. In questo caso il disturbo deve essere generalizzato e diffuso ovvero i rumori oltre ad eccedere la “normale tollerabilità” dovranno poter essere avvertiti da un “numero indeterminato di persone”.
Al riguardo, la
Cassazione ha, di recente, affermato che, «ai fini della configurabilità del
reato di disturbo alla quiete pubblica non sono necessarie né la vastità
dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero
rilevante di persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare
disturbo ad un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio».
Questo significa che se il rumore è avvertito da quasi tutti i condomini dello
stabile, ma non anche da quelli dei palazzi limitrofi, si può ugualmente
parlare di reato.
Qualora, dunque, si
verificasse tale evenienza, sarà sufficiente fare una segnalazione
alla polizia o ai carabinieri che provvederanno a fare le
opportune indagini o, comunque, depositare, anche tramite avvocato,
una denuncia presso la Procura della Repubblica per l’avvio del
procedimento penale. Il giudice, ai fini della sua decisione, valuterà vari
elementi probatori come le testimonianza dei condomini, l'effetto concreto del
rumore e la quantità del disturbo arrecato alla comunità.
Alla luce di quanto innanzi, una considerazione va
pur fatta. Se da un lato ricorrere alle
vie legali in caso di vicini rumorosi è una delle strade più semplici da
scegliere soprattutto nel caso in cui la convivenza è divenuta ormai insostenibile, dall'altro è
d’obbligo tener presente che i tempi della legge possono rivelarsi estremamente
lunghi e molte volte, anche se si dovesse vincere la causa, non sarà comunque
facile ripristinare una situazione di calma e di tranquillità. Pertanto, è preferibile
tentare sempre, fin quando possibile, la strada dell'accordo amichevole e del dialogo pacifico tra le parti.
Con l'auspicio che l'argomento trattato possa essere utile a tutti Voi, Vi lascio un cordiale saluto e Vi aspetto al prossimo caffè.
(un caffè con l'avvocato del 14 ottobre 2020 a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)
Benvenuti ad un caffè con l'avvocato.
Oggi tratteremo "Condominio: responsabilità per danni da caduta"
Tra i casi maggiormente frequenti di richieste di
risarcimento del danno nei confronti del condominio troviamo indubbiamente
quelle relative alle cadute dei condomini o di terzi all’interno delle
parti comuni del fabbricato condominiale ma riuscire ad ottenerlo non è
sempre tanto semplice. Vediamo insieme il perché.
Il
fondamento normativo della responsabilità del condominio per le cadute
all’interno dello stesso è rinvenibile nell’art. 2051 c.c.: “Danno
cagionato da cose in custodia”: “Ciascuno è responsabile del danno
cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo caso fortuito”, ovvero, ai
fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 c.c., è
sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia della cosa con l’evento
lesivo, rapporto che implica l’effettivo potere sulla cosa, e cioè la
disponibilità giuridica e materiale del bene, da cui deriva il dovere di
intervento su di essa da parte del proprietario o anche del possessore o
detentore.
Il custode, cioè, è il
presunto responsabile dei danni provocati dalla cosa custodita anche se essa non è intrinsecamente
pericolosa, ma diviene pregiudizievole in conseguenza di un processo dannoso provocato
da elementi esterni, a condizione che il custode non dimostri che il
danno è derivato da caso fortuito, ivi compreso il fatto del terzo o dello
stesso danneggiato.
Orbene, in linea di principio, il condominio,
quale custode dei beni e servizi comuni, è obbligato ad adottare tutte le
misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno
ed, in caso di caduta, in quanto custode dei beni comuni, è tenuto a
rispondere dei danni causati ai condomini e ai terzi ai sensi dell'art. 2051
c.c.
Per la
giurisprudenza maggioritaria, infatti, si tratta di un'ipotesi di
responsabilità oggettiva configurabile in capo al condominio in virtù della
sola relazione materiale sussistente con i beni in comune, pertanto, il
condominio può essere chiamato a rispondere ex art. 2051 c.c. in conseguenza
dei danni provocati dalla difettosità od omessa manutenzione della cosa
comune. Grava sull’ente, in qualità di custode, l’obbligo di mantenerla e
conservarla in maniera tale da evitare danni a terzi (Trib. Bari III Sez. Civ.
30/08/2013 n.2489).
Tuttavia, con sentenza n. 15042/2008, la Cassazione ha precisato che se il
custode dimostra che il danno è determinato da cause estrinseche ed
estemporanee ingenerate da terzi, non conoscibili né eliminabili
repentinamente, neppure con la più diligente attività di manutenzione, esso è
liberato dalla responsabilità per cose in custodia ovvero la responsabilità risulta
esclusa soltanto quando "l'evento sia imputabile ad un caso fortuito riconducibile al profilo
causale e cioè quando si sia in presenza di un fattore esterno che, interferendo
nella situazione in atto, abbia di per sé prodotto l'evento, assumendo il
carattere del c.d. fortuito
autonomo, ovvero quando si versi nei casi in cui la cosa sia stata resa
fattore eziologico dell'evento dannoso da un elemento o fatto estraneo del
tutto eccezionale (c.d. fortuito
incidentale), e per ciò stesso imprevedibile" (Cass. civ.
11695/2009).
Di conseguenza,
il danneggiato che intende ottenere il risarcimento dal condominio
per essere caduto al suo interno avrà l'onere di provare innanzitutto di aver
subìto un danno in conseguenza della caduta, che sussiste un nesso causale tra
lo stesso danno e le parti condominiali, che la cosa era sotto la custodia
del condominio, cioè trattasi di bene comune, che la situazione era
oggettivamente invisibile e non prevedibile secondo la diligenza ordinaria.
Il condominio, dal
canto suo, per esonerarsi da responsabilità, dovrà dimostrare che il danno non è eziologicamente riconducibile
alla sua condotta ovvero che l'evento si è verificato per caso fortuito,
vale a dire per un accadimento eccezionale, imprevisto ed
imprevedibile, che può essere integrato anche dal fatto di un terzo o
dello stesso danneggiato. Invero, nel caso in cui l’evento sia da ascriversi
esclusivamente alla condotta del danneggiato, il quale abbia interrotto il
nesso causale tra cosa in custodia e il danno, si verifica una ipotesi di caso
fortuito che libera il custode dalla responsabilità di cui all’art. 2051 c.c..
Al riguardo, il Tribunale di Bari ha precisato che il caso fortuito può consistere sia in una
alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non
tempestivamente eliminabile ovvero non segnalabile nemmeno con la normale
diligenza, sia nella condotta del danneggiato, ricollegabile all’omissione
delle normali cautele esigibili in situazione analoghe.(Trib. Bari, Sez. Civ.
II del 27/02/2014)
Pertanto, il comportamento stesso del
danneggiato può mitigare la responsabilità oggettiva del custode, “potrà
escludersi che il danno sia cagionato dalla cosa, ridotta a mera occasione
dell’evento, e ritenersi il caso fortuito”, quando anche in relazione alla
mancanza di intrinseca pericolosità della cosa, la situazione di pericolo
comunque venutasi a creare “si sarebbe potuta evitare attraverso un
comportamento ordinariamente cauto”.
(Cass. III Sez Civ. n.25584/2013).
Alla luce di quanto innanzi, dunque, possiamo
asserire che nonostante l’art. 2051 c. c. rappresenti un’ipotesi di
responsabilità aquiliana oggettiva, il custode ne risponderà solo nel caso in
cui il danno sia stato determinato da cause intrinseche della cosa, tali da
costituire fattori di rischio conosciuti o conoscibili a priori dallo stesso ed
il danneggiato, ai fini risarcitori,
dovrà comunque dimostrare che il pericolo non era suscettibile di essere
previsto e superato attraverso l'uso della normale diligenza.
In tal senso anche il recente orientamento della
Corte di Cassazione, la quale tornando ad
occuparsi ancora una volta del danno da cose in custodia e dei limiti
entro cui opera la responsabilità del Condominio, con l'ordinanza n. 8478/2020,
ha sostenuto che “ in tema di responsabilita' civile per danni da cose in
custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si
atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento
danno: quanto piu' la situazione di possibile danno e' suscettibile di essere prevista e superata attraverso
l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto
alle circostanze, tanto piu' incidente deve considerarsi l'efficienza causale
del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino
a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso”.
E per oggi il nostro caffè è terminato, ci rivediamo al prossimo. Buona giornata!
(un caffè con l'avvocato del 07 ottobre 2020 a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)
Oggi ci occuperemo di un argomento che non di rado è causa di ponderosi litigi: Panni stesi in condominio e i limiti previsti dalla legge.
Capita spesso in condominio che, in mancanza di spazi o locali espressamente adibiti all'uso, per asciugare i panni, i condomini ricorrano a stenditoi mobili o supporti esterni al balcone i quali, però, se non utilizzati con le dovute cautele, normalmente dettate dal buon senso, finiscono col rappresentare occasione di ampie ed accese discussioni.
Infatti, non si possono appendere indumenti bagnati, lenzuola e biancheria a piacimento ma ci sono dei limiti previsti dalla legge che vanno osservati e rispettati.
Innanzitutto c’è da dire che non vi è alcuna norma del Codice Civile che disciplina questa materia, pertanto occorre far riferimento ai regolamenti condominiali e comunali.
Il regolamento condominiale, adottato a maggioranza dall'assemblea, oltre a disciplinare l’uso delle cose comuni e il decoro dell’edificio, può anche regolamentare la gestione dei panni stesi.
Invero, il regolamento può imporre orari e luoghi nei quali è vietata l’esposizione degli indumenti e della biancheria e ciò sia per evitare di pregiudicare il godimento della cosa comune da parte degli altri condomini, sia per salvaguardare l'estetica e il decoro del palazzo, sia ancora per evitare liti condominiali conseguenti allo sgocciolamento dell’acqua di scolo nella proprietà altrui.
Un divieto a stendere i panni dal balcone, se non proveniente dal regolamento di condominio, potrebbe essere contenuto in quello comunale.
Quest’ultimo, infatti, può prevedere il divieto di esporre, stendere o appendere per qualsiasi motivo alla vista del pubblico biancheria, panni e simili, fuori dalle finestre, sui terrazzi, balconi, poggioli antistanti a pubbliche vie e luoghi aperti al pubblico, oppure concedere la possibilità di sbattere ed esporre il bucato solo in determinate ore della giornata, il tutto al fine di preservare il pubblico decoro.
Le regole possono essere diverse da Comune a Comune ed in caso di violazione della norma comunale è prevista una sanzione di tipo amministrativo, ossia una multa da pagare a seguito di un controllo da parte della polizia urbana.
In merito poi alla salvaguardia del decoro architettonico, la legge non prevede sanzioni se un condomino stende i panni a vista e, in assenza di regolamenti condominiali o di polizia urbana, si deve ritenere che in generale lo stendimento dei panni su di un balcone condominiale "constando non in un'opera materiale ma in un'attività comportamentale che viene posta in essere occasionalmente, non può essere considerato come un elemento di deturpamento del decoro architettonico, per il quale si richiede appunto il compimento di opere materiali idonee a modificare stabilmente le linee strutturali del fabbricato". (Manuale pratico del nuovo condominio, Maggioli Editore, 2013)
Sul punto si è espressa la Cassazione, che ha ritenuto non lesiva del decoro architettonico l’esposizione di panni su un balcone o all'esterno delle finestre, trattandosi di un comportamento saltuario che non modifica stabilmente le linee architettoniche dell’edificio, né quella di stracci e tendaggi sul lastrico solare condominiale, trattandosi di oggetti collocati provvisoriamente e facilmente rimovibili.(Cass. Civ. ord. n. 1326 del 30.01.2012)
L’orientamento è stato successivamente condiviso anche da altri giudici.
Al riguardo, però, una riflessione va pur fatta.
Invero, se da un lato, stendere i panni sul balcone, sul terrazzo o sul lastrico non incide sul decoro architettonico dell’edificio in quanto trattasi di posa temporanea di oggetti rimovibili e non di opere edili incidenti sulla sagoma o la facciata del fabbricato, dall'altro, è innegabile che, se su tutti i balconi dovessero essere stese lenzuola, camicie e biancheria intima, non sarebbe certo un bel vedere. Pertanto, in assenza di clausole regolamentari, sarebbe opportuno usare il buon senso e scegliere di stendere i panni in cortile, magari sul fronte laterale o interno e non sulla facciata principale del palazzo.
È possibile che né i regolamenti di condominio né i regolamenti comunali, contengano divieti a stendere i panni dal balcone pur tuttavia, in mancanza, resterebbe comunque l’obbligo di non arrecare molestie ai vicini di casa. Pertanto, non sarà mai possibile agire in maniera del tutto incontrollata in quanto ci sono sempre delle regole che, in ogni caso, vanno rispettate e, se violate, renderebbero giuridicamente lo stendere i panni in maniera impropria un comportamento lesivo dei diritti altrui.
In primo luogo, la biancheria non deve mai sgocciolare sulla proprietà altrui.
La Cassazione ha più volte sostenuto che non si possono stendere i panni se l’acqua bagna il balcone del piano di sotto.
A tal proposito, con la sentenza numero 7576 del 28 maggio 2007, la Suprema Corte ha addirittura affermato che lo "stillicidio, sia delle acque piovane, sia, ed a maggior ragione, di quelle provenienti (peraltro con maggiore frequenza) dall'esercizio di attività umana, quali quelle derivanti dallo sciorinio di panni mediante sporti protesi sul fondo alieno (pratiche comportanti anche limitazioni di aria e luce a carico dell'immobile sottostante), per essere legittimamente esercitato, debba necessariamente trovare rispondenza specifica in un titolo costitutivo di servitù ad hoc o, comunque, essere esplicitamente previsto tra le facoltà del costituito diritto reale".
Ed
ancora, non sussiste alcun titolo che si esprima in termine di servitù del
“gocciolio”. Sul punto la Suprema Corte ha osservato che la biancheria può
essere stesa solo negli spazi condominiali e purché non vi sia il cosiddetto
“gocciolio” (Cass. Civ. sentenze n. 6129/2017 e n. 8223/2018)
La presenza di un balcone
implica solo il diritto di affacciarsi e, quindi, alla veduta e all'aria ma non
anche il diritto di sporcare o bagnare il balcone di sotto. Il Supremo Collegio ha evidenziato che,
quando un condomino agisce in giudizio per far rimuovere gli stenditoi dai
balconi sopra il proprio terrazzo e farne cessare il relativo gocciolio,
esercita un'azione per eliminare una «servitù», cioè eliminare il diritto
dell’altro condomino di stendere (e quindi far sgocciolare) i panni. (Cass.
Civ. Sent. n. 14547/2012)
Non è tutto. Si potrebbe, altresì, ipotizzare il reato di molestia, così come affermato dal Tribunale di Bari con la sentenza del 3 ottobre 2017, secondo la quale integra questa fattispecie di reato il comportamento del condomino che costringe il proprietario del balcone o del terrazzo sottostante a subire continuamente lo sciorinio dei panni intrisi d'acqua, si tratta, infatti, di una condotta valida a disturbare la quiete e ad ingenerare stati nervosi nel vicino di casa.
Ed ancora, laddove lo stendere i panni gocciolanti diventi un atteggiamento continuativo e reiterato, tale condotta potrà qualificarsi anche come reato in base all'art. 674 del Codice Penale, dedicato al «getto pericoloso di cose»: «Chiunque getta o versa in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino ad un mese o con l'ammenda fino a duecentosei euro».
Alla luce di quanto innanzi, dunque, possiamo concludere asserendo che se da un lato i panni in condominio possono essere sempre stesi, con l’osservanza delle regole in materia e/o in ragione del buon senso, dall'altro sarà sempre necessario avere la prontezza e l’oculatezza di strizzarli bene al fine di non creare gocciolamenti ed evitare che il vicino possa sporgere querela.
Con l'auspicio che l'argomento sia stato di Vs. gradimento, vi rinnovo l'appuntamento al prossimo caffè.
Buona giornata a tutti
(un caffè con l'avvocato del 30 settembre 2020 - a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)
Un affettuoso benvenuto a tutti Voi.
Nel nostro consueto caffè del mercoledì parleremo di un argomento che, non di rado, finisce col diventare causa di vertenze giudiziarie ovvero la sosta dell'auto o di altro mezzo nelle parti comuni di un condominio, quale il cortile, il giardino e finanche il viale di ingresso.
In condominio, secondo quanto previsto dall'art. 1117 del codice civile o negli atti di acquisto o nel regolamento condominiale contrattuale, i posti auto/parcheggi possono essere:
1. di proprietà del condominio, ossia di tutti i condomini secondo millesimi. Pertanto, costituiscono a tutti gli effetti parti comuni e possono essere utilizzati indistintamente da tutti i condomini (o in modo turnario, ove siano insufficienti). Essi possono anche essere affittati ai condomini o a terzi, a seguito di delibera assembleare;
2. di proprietà esclusiva, ossia di uno o più condomini. In questo secondo caso, ciascuno è proprietario di una specifica sezione;
3. in uso esclusivo, quando sono assegnati da atti notarili e/o regolamenti in uso esclusivo a uno o a più condomini.
In questi ultimi due casi, essi vengono utilizzati direttamente dai proprietari, dai titolari del diritto di uso o dai loro aventi causa.
Una delle principali novità apportate dalla riforma del condominio, all'elenco di cui al punto 2 dell'art. 1117 c.c. sulle parti comuni è l'inserimento esplicito delle "aree destinate a parcheggio".
Sebbene il principio ispiratore della norma è da sempre quello di considerare comuni tutti gli spazi e i locali utili per fornire servizi alla collettività dei condomini, tuttavia, l'aver previsto espressamente le predette aree tra i beni comuni, produce quale risultato una tutela diretta e rafforzata della proprietà delle stesse. Infatti, essendo state incluse nell'elenco di cui art. 1117 c.c., non sarà necessario che il singolo condomino ne dimostri la comproprietà, ma sarà sufficiente, al fine della presunzione della natura condominiale, che tali beni siano funzionali al servizio o al godimento collettivo ovvero che siano strutturalmente collegati con le unità immobiliari di proprietà esclusiva in un rapporto di accessorietà.
Per quanto attiene le tipologie di parcheggio condominiale queste possono essere diverse, in ragione alla natura stabilita in fase di costruzione o, se eventualmente la superficie adibita a tale scopo non fosse in grado di contenere tutti i veicoli dei condomini, di realizzazione ex novo di spazi da adibire a parcheggi, secondo le disposizioni e le maggioranze previste in tema di innovazioni dall'art. 1120 c.c., ovvero di modifica della destinazione d'uso di una parte comune, secondo le maggioranze previste dal nuovo art. 1117-ter, purché non rechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o alterino il decoro architettonico dell'edificio.
Invero, negli ultimi anni, a seguito del rapido sviluppo della circolazione automobilistica e delle problematiche ad essa connesse, alcune parti condominiali, diversamente da quanto previsto in costruzione, sono state destinate ad area di sosta.
In alcuni casi sono stati realizzati veri e propri posti auto delimitati, in altri è stata prevista la possibilità di sosta a rotazione, oppure il parcheggio solo in alcuni giorni.
Tra le parti comuni da destinare a parcheggio
è ormai pacifico, in
giurisprudenza, l'utilizzabilità del cortile comune, tra le cui
destinazioni accessorie, oltre a quella principale di dare aria e luce alle
varie unità immobiliari, "rientra
quella di consentire ai condomini l'accesso a piedi o con veicoli alle loro
proprietà, di cui il cortile costituisce un accessorio, nonché la sosta anche
temporanea dei veicoli stessi, senza che tale uso possa ritenersi condizionato
dall'eventuale più limitata forma di godimento del cortile comune praticata nel
passato" (Cass. n. 13879/2010).
In tal caso sarà l’assemblea a decidere di adibire il cortile a parcheggio di autovetture, ma a tal fine sarà necessario il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all’assemblea, in rappresentanza di almeno i 2/3 del valore millesimale dell'intero edificio ovvero 667/1.000.
È, altresì, possibile destinare a parcheggio l'area del giardino condominiale, "interessata solo in piccola parte di alberi d'alto fusto e di ridotta estensione rispetto alla superficie complessiva" che non dà luogo ad "innovazione vietata dall'art. 1120 c.c., non comportando tale destinazione alcun apprezzabile deterioramento del decoro architettonico, né alcuna significativa menomazione del godimento e dell'uso del bene comune, ed anzi da essa, derivando una valorizzazione economica di ciascuna unità abitativa e una maggiore utilità per i condomini" (Cass. n. 15319/2011).
In questo caso, però, la delibera dovrà essere preferibilmente presa all'unanimità , infatti, è recente una pronuncia della Corte di Appello di Cagliari, Sez, I., con cui è stato stabilito che quando l’innovazione deliberata a maggioranza (e non all'unanimità) contempla, per la realizzazione di un parcheggio, l’abbattimento di alberi, la delibera è nulla in quanto trattasi di una decisione che comporta la distruzione di un bene comune e dunque una innovazione che limita i diritti degli altri condomini (sfavorevoli o astenutesi) su beni in comproprietà (Corte di Appello di Cagliari, sez. I, Sentenza 14 Marzo 2019)
Quale che siano le circostanze nel caso concreto, in assenza di un regolamento o delibere sul punto, il principio che resta fermo è quello “della parità di godimento tra tutti i condomini”, pertanto l'uso e il godimento dei parcheggi spettano a tutti i condomini, secondo quanto stabilito dall'art. 1102 c.c «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa».
Il dettato normativo richiamato, da un lato, consente a
ciascun condomino l'utilizzo degli spazi comuni a condizione che non ne alteri
la destinazione e non ostacoli agli altri di farne pari uso e, dall'altro,
impedisce che, sulla base del
criterio del valore delle singole quote, possa essere riconosciuto ad alcuni il
diritto di fare un uso del bene, dal punto di vista qualitativo, diverso dagli
altri.
Alla luce di quanto
innanzi, dunque, nel caso di parcheggi condominiali insufficienti a contenere
contemporaneamente le autovetture di tutti i condomini, la giurisprudenza ha affermato la legittimità
della disciplina turnaria dei posti macchina, la quale lontano dall'implicare
l'esclusione di un condomino dall'uso del bene comune, "è adottata per
disciplinare l'uso di tale bene in modo da assicurarne ai condomini il massimo
godimento possibile nell'uniformità di trattamento e secondo le
circostanze" (Cass. n. 12873/2005), purchè l'uso turnario del parcheggio
sia distribuito in modo che tutti i condomini abbiano gli stessi diritti sui
posti auto, sebbene cadenzati in diversi momenti (Cass. n. 12486/2012; Cass. n.
26630/2018).
A tal fine, sarà necessaria
una delibera adottata con il voto favorevole della maggioranza degli
intervenuti, in rappresentanza di almeno 500/1.000.
Se l’assemblea non
si mette d’accordo o decide di non approvare alcun turno è diritto del singolo
condomino rivolgersi al giudice per indurre il condominio ad adottare delle
rotazioni nell'assegnazione dei posti
auto.
Inoltre, se nell'area destinata a parcheggio vi
sono dei negozi, è possibile chiuderla con un cancello o con una sbarra
automatica, ma è necessario dotare i condomini della relativa chiave o congegno
di apertura e chiusura, e lasciare aperto un passo pedonale che consenta alla
clientela di accedere ai negozi esistenti nell’edificio. Per introdurre questa
modifica, sarà sufficiente il voto favorevole della maggioranza degli
intervenuti all’assemblea, in rappresentanza di almeno 500/1.000.
Al riguardo la
Cassazione è stata chiara: “ Il proprietario di uno dei negozi presenti nel
condominio non può pretendere che i propri clienti parcheggino nel cortile
comune, poiché il Codice civile vieta ai partecipanti di fare uso
della cosa comune in modo da compromettere l’uso, attuale o potenziale, degli
altri condomini”. (Corte di Cassazione 30/3/2009, n. 7637)
In conclusione, è evidente che la sempre più frequente difficoltà di rinvenire un parcheggio sulla strada provochi, di per sé, l’avanzare sempre più consueto di pretese per l’occupazione di maggiori spazi comuni presenti nel condominio.
Naturalmente ciò sarà possibile solo tenendo in
considerazione che, nella disciplina vigente, relativamente all'utilizzo delle
parti comuni, vige un principio fondamentale quale il rispetto del pari diritto
altrui, ragion per cui Il parcheggio in tanto sarà consentito in quanto non impedisca agli altri condomini l’accesso
ai locali di proprietà individuale, non comporti una diminuzione rilevante
dell’aria e della luce nelle unità immobiliari circostanti e non crei una
situazione di pericolo.
Laddove, poi, si realizzi una violazione, occorrerà procedere affinché la stessa sia eliminata o impedita, anche mediante la previsione di sanzioni ad hoc.
Invero, in
conformità a tale esigenza, il codice civile stabilisce che i condomini possono
deliberare la comminazione di sanzioni, ove le stesse siano indicate
espressamente nel regolamento in ragione della avvenuta violazione.
Siffatta sanzione avrà chiaramente la funzione di deterrente ma, non è raro, che, laddove la stessa venisse irrogata, previa assunzione di adeguata delibera, ma non adempiuta dal condomino trasgressore, il Condominio potrà comunque agire in giudizio perché la stessa trovi attuazione mediante azione esecutiva.
Con l'auspicio che abbiate trovato interessante questo argomento trattato nella nostra rubrica settimanale, Vi abbraccio calorosamente e vi rinnovo l'appuntamento al prossimo mercoledì...sempre con "un caffè con l'avvocato". Ciao
(un caffè con l'avvocato del 23 settembre 2020 - a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)
Benvenuti al consueto appuntamento con la rubrica “un caffè con l’avvocato”.
Oggi
ci occuperemo di “L’ Amministratore di
condominio: chi è, quali sono i suoi compiti, quando è obbligatoria la sua
nomina.”
Iniziamo col dire che l'amministratore di condominio è una figura molto importante per la gestione degli immobili ed il suo operato è disciplinato dalla legge.
L'amministratore di condominio è nominato dall'assemblea dei condomini per agire e rappresentare il condominio in loro vece. L'amministratore è il responsabile delle parti comuni dell'edificio cioè quelle definite dall' art. 1117 c.c. e dal regolamento di condominio. Egli non ha alcun potere né rappresentanza in merito alle parti private dell'edificio quali i singoli appartamenti.
L’incarico di amministratore di condominio può essere svolto da tutti coloro
che posseggono una serie di requisiti ovvero :
- hanno
il godimento dei diritti civili;
- non sono stati condannati per delitti
contro la Pubblica Amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la
fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il
quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo,
a due anni e, nel massimo, a cinque anni;
- non sono stati sottoposti a misure di
prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la
riabilitazione;
- non
sono interdetti o inabilitati;
- il
cui nome non risulta annotato nell’elenco dei protesti cambiari;
- hanno
conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado;
- hanno
frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di
formazione periodica in materia di amministrazione condominiale.”
Questi ultimi due requisiti
non sono necessari qualora l’amministratore venga nominato tra i condomini dell’edificio.
L’incarico di amministratore può essere espletato anche da una società.
La durata dell’incarico è di un anno, rinnovabile
di un altro anno se non viene revocato.
La professione è molto delicata e piena di responsabilità, pertanto è obbligatorio dotarsi di assicurazione professionale.
Invero, successivamente alla nomina, l’amministratore dovrà svolgere una serie di compiti ed osservare diversi doveri, che qui di seguito andrò a sintetizzare:
1.
Al momento dell'accettazione della
nomina l'amministratore deve:
- comunicare i propri dati anagrafici e professionali, in particolar modo il codice fiscale, il luogo in cui saranno custoditi i registri del condominio e gli orari in cui saranno consultabili,
- deve apporre sul luogo di accesso al condominio le proprie generalità e recapiti, anche telefonici,
- deve associare al proprio il codice fiscale del condominio presso l'Agenzia delle Entrate,
- volturare tutte le utenze del condominio,
- effettuare il formale passaggio di consegne con l'amministratore precedente,
- presentarsi nella filiale in cui è aperto il conto corrente condominiale per depositare la propria firma o aprire un conto per conto del condominio.
2. Nel corso del mandato l'amministratore deve:
·
convocare l'assemblea dei condomini annualmente e di eseguirne le
delibere,
·
disciplinare l'uso delle parti condominiali e la fruizione dei servizi
nell'interesse comune, in tal senso il codice civile gli fornisce la
possibilità di prendere decisioni che i condomini devono obbligatoriamente
rispettare,
·
deve incassare le rate condominiali e pagare
i fornitori utilizzando per
tutti pagamenti erogati o ricevuti un apposito conto corrente condominiale
intestato al condominio,
·
agire
contro i condomini morosi anche per vie legali.
L’amministratore può sottrarsi a questo dovere solo se l'assemblea lo esonera esplicitamente
da questo compito,
·
far rispettare il regolamento di condominio,
·
provvedere
a tutti i dovuti ADEMPIMENTI FISCALI,
·
curare
la tenuta dei registri del condominio, conservarli e renderli
disponibili alla consultazione dei singoli condomini.
3.
A fine anno l’amministratore deve:
· redigere il rendiconto o bilancio
condominiale annuale della gestione e convocare l'assemblea per la sua
approvazione.
· consegnare tutta la documentazione relativa
al condominio e ai singoli condomini, nel caso di cessazione dell'incarico. Se l'amministratore
non ottemperasse a quest'obbligo incorrerebbe nel reato di appropriazione
indebita.
Ma
quando in un condominio è obbligatorio nominare l’amministratore? A seguito
della riforma attuata con la legge 220/2012, è cambiata la soglia al di sopra della quale
è divenuta obbligatoria la nomina dell'amministratore condominiale.
Infatti, alla luce della predetta
legge di Riforma, la nomina di un
amministratore in un fabbricato condominiale è obbligatoria esclusivamente in
presenza di almeno nove condomini, nei casi diversi non vi è alcun
obbligo di nomina.
Al riguardo, L’ articolo 1129 del Codice Civile, al primo comma, recita “Quando i condomini sono più
di otto, se l'assemblea non vi provvede, la nomina di un
amministratore è fatta dall'autorità giudiziaria su ricorso di uno o più
condomini o dell'amministratore dimissionario”.
La maggioranza necessaria per
nominare l’amministratore richiede il voto favorevole della maggioranza degli
intervenuti all’assemblea, in rappresentanza di almeno 500/1.000, anche in
seconda convocazione. Se l’assemblea non decide, l’amministratore viene
nominato dal Tribunale su ricorso anche di un solo condomino.
Per concludere va ricordato che l’amministratore di condominio può essere revocato per "gravi irregolarità" in qualsiasi momento, con la stessa maggioranza prevista per la nomina. Si precisa che la revoca deve avvenire per giusta causa, ossia per mancato adempimento ai propri doveri in quanto, laddove la revoca avvenisse senza motivazioni addebitabili alla colpa del professionista, quest’ultimo potrebbe rivendicare il diritto al risarcimento del danno subito, in base al corrispettivo annuale ancora dovutogli.
Anche per oggi “un caffè con
l’Avvocato” è terminato. Con l’auspicio di essere stata il più esaustiva
possibile, vi auguro una buona giornata e rinnovo l’appuntamento con la nostra
rubrica a mercoledì prossimo.
(un caffè con l'avvocato del 02 settembre 2020)
Benvenuti ad "un caffè con l'Avvocato".
Oggi parleremo di "Lastrico solare condominiale: come ripartire le spese di manutenzione".
Per prima cosa, è importante capire cosa
si intende per lastrico solare.
Il lastrico solare è la superficie terminale
di un edificio che funge da copertura (al pari del tetto)
delle sottostanti unità immobiliari, caratterizzato da una
superficie impermeabilizzata e pavimento piano e che può essere di
proprietà comune (che, in tal caso, possono usarlo per stendervi i panni,
accedervi etc.) o in uso esclusivo ad un singolo condòmino o ancora
appartenere anche a chi non detiene nessuna proprietà nel condominio.
In quest’ultimo caso, il soggetto in questione va considerato a tutti gli
effetti un condomino laddove la proprietà del lastrico solare sia legata al
diritto di sopraelevazione. Il lastrico, inoltre, può essere accessibile
o inaccessibile e quindi munito o sprovvisto di parapetto.
Al riguardo, sarà sufficiente
verificare il regolamento di condominio e gli atti
di acquisto degli appartamenti da cui risulterà la diversa destinazione
dell’area rispetto alla proprietà condominiale.
Il lastrico solare deve essere mantenuto
in buone condizioni. Pertanto, è sempre necessario eseguire
periodicamente dei lavori di manutenzione ordinaria o
straordinaria, quali ad esempio sostituire la guaina, le piastrelle della
pavimentazione, ecc.
Orbene, chiarito il concetto di lastrico
solare, chi paga le spese ad esso relative?
Il principio generale in tema di riparto delle
spese nel condominio di edifici è contenuto all’art. 1123 c.c. Il primo comma della norma statuisce che le
spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni sono
sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di
ciascuno, salvo diverso accordo. Il secondo comma precisa poi che, se si tratta
di cose destinate a servire i condomini in maniera diversa, le spese sono
ripartite in proporzione all’uso che ciascuno può farne.
A questo criterio generale se ne affiancano
altri più specifici.
L’art. 1125 c.c. prevede infatti che le spese per la manutenzione e la
ricostruzione di soffitti, volte e solai sono sostenute dai proprietari dei due
piani l’un l’altro sovrastanti in parti uguali.
Restano invece a carico, rispettivamente, del
proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e di quello del
piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto.
Quanto ai lastrici solari (ovvero a quelle
porzioni di fabbricato che hanno funzione di copertura dell’edificio), l’art. 1126 c.c. prevede che qualora l’utilizzo (anche di una sola porzione) degli
stessi non sia comune a tutti i condomini, i costi per eventuali riparazioni o
manutenzione gravano per un terzo su chi ne ha l’uso esclusivo e per i restanti
due terzi su tutti i condomini o su quelli a cui il lastrico serve, in
proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.
Più precisamente:
- se il lastrico solare è di proprietà del condominio e quindi svolge la sola funzione di copertura, le spese andranno ripartite tra tutti i condòmini.
- se il lastrico solare è in uso esclusivo o di proprietà esclusiva di un solo condòmino , questi dovrà contribuire alle spese per 1/3, mentre la cifra restante pari a 2/3 andrà suddivisa tra tutti gli altri condòmini.
- se chi ha l’uso esclusivo del lastrico è anche proprietario di una delle unità immobiliari sottostanti, vi sarà l’obbligo della doppia contribuzione ovvero il predetto proprietario dovrà pagare 1/3 delle spese per l’uso esclusivo del lastrico e 2/3 delle spese in proporzione al valore millesimale della porzione di appartamento coperta dal lastrico.
Spero che l'argomento possa esservi utile e vi aspetto al prossimo caffè. Buona giornata!
(Un caffè con l'avvocato del 26 agosto 2020)
Benvenuti al nostro caffè del mercoledì.
L'argomento di oggi è "Rottura della tubatura dell’acqua in condominio: chi paga?"
Tra i problemi principali che possono verificarsi in casa c’è la rottura del tubo dell’acqua. In questo caso occorre capire di chi è la responsabilità, specialmente se si vive in condominio.
Al riguardo, il legislatore ha inserito una norma nel codice civile molto chiara. Secondo l’articolo 2051 del codice civile “il presunto responsabile dei danni che derivano a terzi da un determinato bene è il soggetto che di tale bene ha la custodia”.
Ed ancora, L’articolo 1117 del codice civile stabilisce che tutti gli impianti, le opere e i manufatti, se destinati a uso comune, sono di proprietà del condominio ma, nello stesso tempo, la proprietà del condominio cessa nel momento in cui le installazioni si diramano per servire singole unità abitative.
Di conseguenza, in ragione del principio di cui all’art. 2051 c.c., nell’ipotesi in cui le infiltrazioni provengano dalla rottura di un tubo di proprietà del condominio o, comunque, posto in un qualsiasi altro bene comune, il responsabile per i danni che da tale evento derivino al proprietario dell’alloggio sarà il condominio stesso, in quanto è proprio quest’ultimo il soggetto giuridico titolare e custode del bene. Ragion per cui, il condominio dovrà farsi carico dei lavori di ristrutturazione e rispondere del risarcimento degli eventuali danni subiti da mobili ed arredamenti in genere. Tale conclusione appare obbligata essendo il condominio “custode” delle parti comuni dell’intero edificio e, dunque, il soggetto titolare del dovere di manutenzione.
E, sempre in applicazione del medesimo principio, se le infiltrazioni provengono da tubature appartenenti ad un singolo condomino sarà costui a dover risarcire gli eventuali danni che ne siano derivati a soggetti diversi. Il principio posto alla base di tale conclusione è il medesimo: poiché il proprietario dell’immobile è anche custode del bene, quest’ultimo è da ritenersi responsabile dei danni cagionati dal bene stesso a terzi.
A questo punto, alla luce dell’art. 1117 c.c., occorrerà distinguere tra tubature condominiali e tubature private.
In generale si può asserire che i tubi che passano all’interno dell’appartamento sono considerati di proprietà privata quando si tratta di tubature che scorrono nel pavimento, o nei muri tra una stanza e l’altra.
Per tubature condominiali si intendono, invece, quelle verticali che collegano le varie abitazioni del palazzo.
Pertanto, in ragione di quanto innanzi esplicitato, le tubature di adduzione sono di proprietà condominiale sino a quando non incontrano i contatori dei singoli condomini, mentre quelle di scarico lo sono sino a quando non si collegano con i tubi dei vari appartamenti. Se le infiltrazioni provengono da tubature di proprietà del singolo condomino è quest’ultimo a dover rispondere dei danni che ne siano derivati.
Secondo quanto definito dal legislatore è facile comprendere che, per individuare il responsabile dei danni causati da un tubo d’acqua rotto nel muro, occorrerà individuare il soggetto custode del bene. Il codice civile è molto chiaro in merito stabilendo che per le tubature comuni sono titolari tutti i condomini che quindi dovranno pagare il danno anche a terzi in maniera proporzionale.
È bene precisare, poi, che laddove trattasi di tubature di pertinenza di un immobile concesso in locazione, secondo la giurisprudenza, il proprietario dell’immobile conserva la custodia delle strutture murarie e degli impianti che in esse siano conglobati, mentre è il conduttore a divenire custode degli accessori e delle altre parti di un bene locato. Quindi l’inquilino è responsabile per le eventuali infiltrazioni d’acqua derivanti dalla rottura di un tubo flessibile esterno all’impianto idrico, che poteva essere sostituito senza demolizioni. Non lo è in caso di rottura di una tubatura all’interno della pavimentazione (sentenza numero 21788/2015 della Corte di Cassazione).
Si evidenza, a tal uopo, che nella maggior parte dei casi i condomini sono coperti da un’Assicurazione Condominiale, ovvero da un tipo di polizza che copre un’ampia gamma di danni da acqua, come quelli causati da infiltrazioni, rottura tubi e molti altri ancora. Tuttavia esistono delle circostanze, e quindi delle particolari tipologie di rotture dei tubi, che non sono coperte dalla Polizza Globale Fabbricati.
Inoltre è bene ricordare che l’Assicurazione Condominio prevede sempre una franchigia per danni causati da perdite d’acqua, in ragione della quale una parte dell’importo da destinare alla riparazione del danno resta a carico del condominio o dell’inquilino responsabile, mentre il resto sarà pagato dalla società.
Pertanto, se l’acqua proviene dalla rottura di una tubatura condominiale, i danni saranno coperti dalla polizza globale fabbricati e il costo della franchigia verrà ripartito tra i vari abitanti dello stabile.
Se, invece, l’acqua proviene dalla rottura di una tubatura privata, sarà sempre la compagnia a procedere con il rimborso delle spese di riparazione ma il costo della franchigia è interamente a carico del condomino che ha causato il danno.
Sperando che l’argomento trattato possa esservi utile, rinnovo l‘appuntamento con “un caffè con l’avvocato” a mercoledì prossimo. Vi aspetto in tanti. Ciao!!!
(un caffè con l'avvocato del 19 agosto 2020)
Benvenuti al nostro caffè del mercoledì.
Oggi
parleremo di “Come si ripartiscono le spese condominiali tra proprietario e
inquilino?
Quante discussioni fra inquilini e proprietari nascono sulla ripartizione delle spese sia condominiali che di manutenzione o riparazioni varie. Spesso diventano vero e proprio motivo di controversie condominiali e, in certi casi,danno addirittura origine a lunghe ed insidiose azioni giudiziarie.
In caso di affitto sorge sempre il dubbio su come si ripartiscono le spese condominiali: proprietario o inquilino? Di fatto, le spese condominiali non vengono ripartite in base ad accordi privati tra inquilino e proprietario, bensì in base a una normativa molto ampia in merito al rapporto di locazione in essere.
Di seguito cercherò di fare il punto della situazione e spiegare in breve con quali criteri avviene la ripartizione delle spese condominiali tra proprietario e inquilino.
I criteri che disciplinano la ripartizione delle spese sono dettati, in primo luogo, da quanto stabilito nei regolamenti condominiali e, in secondo luogo, se i regolamenti non contengono regole in merito, dalle norme contenute nel Codice Civile.
Il Codice Civile, all’articolo 1576, delinea le due macrocategorie principali di spesa: quelle ordinarie e quelle straordinarie, stabilendo che “il locatore deve eseguire, durante la locazione, tutte le riparazioni necessarie, eccettuate quelle di piccola manutenzione che sono a carico del conduttore.”
In linea generale, quindi, il proprietario è tenuto a sostenere tutte le spese per la manutenzione straordinaria e l’inquilino deve provvedere ai piccoli interventi di manutenzione ordinaria. Nella Legge 392/78 che disciplina la locazione immobiliare urbana, vengono specificate ulteriori ripartizioni di spesa. Verifichiamo due concetti base: chi paga le spese condominiali e chi le spese dell’immobile.
Le spese condominiali sono a carico dell’inquilino e comprendono tutte le spese relative alla gestione degli spazi condivisi, definite manutenzione ordinaria:
- i servizi di pulizia delle scale;
- la fornitura di acqua, di energia elettrica e l’eventuale condizionamento e riscaldamento delle parti in comune;
- la manutenzione dell’ascensore.
Sono invece a carico del proprietario le spese di straordinaria manutenzione e cioè quelle, ad esempio, dovute per il rifacimento degli impianti o delle facciate.
La parte responsabile nei confronti del condominio è sempre il proprietario, perseguibile legalmente in caso di mancato pagamento anche dell’affittuario.
Qualora l’inquilino venga meno a tale obbligo, il locatore può esercitare il diritto di rivalsa su quest’ultimo, chiedendo il rimborso delle spese sostenute; in questo caso l’inquilino ha 60 giorni di tempo per provvedere al pagamento. In caso di mancato assolvimento di tali oneri per oltre due mensilità, il proprietario può richiedere la risoluzione del contratto.
Le spese di piccola manutenzione relative all’immobile sono a carico del conduttore. In sostanza egli deve provvedere a tutte le spese dovute a riparazione causate dal normale deterioramento o uso del bene. A titolo esemplificativo:
- le riparazioni degli impianti idrici o elettrici;
- la riparazione degli apparecchi di servizio di riscaldamento o condizionamento;
- la manutenzione di strutture e rivestimenti quali i pavimenti, le pareti e il soffitto.
Il proprietario deve, invece, sostenere le spese per eventi non previsti ed imprevedibili, non evitabili attraverso le comuni opere di manutenzione ordinaria, e quelle dovute al deterioramento del bene. Sono a suo carico anche le spese sostenute per l’adeguamento dell’immobile alle normative vigenti.
Infine, è utile ricordare che se l’inquilino è costretto ad accollarsi spese per riparazioni urgenti, che dovrebbero essere a carico del locatore, egli può richiederne il rimborso a quest’ultimo previa immediata comunicazione dei costi sostenuti.
Pertanto, alla luce di quanto innanzi, possiamo asserire che quando la casa è in affitto alcune delle spese condominiali sono a carico del locatore (proprietario) ed altre del conduttore (inquilino) il quale, pertanto, oltre al normale canone di locazione dovrà corrispondere anche gli oneri accessori.
È bene precisare che le parti possono comunque stabilire, nel contratto di locazione, una diversa ripartizione delle spese con l’obbligo, naturalmente, di provvedere ad effettuare direttamente il pagamento delle spese che sono rispettivamente di loro competenza.
Con L’auspicio che l’argomento sia stato di Vs. gradimento, Vi rinnovo l’appuntamento a mercoledì prossimo sempre con la ns. rubrica “un caffè con l’avvocato”. Ciao
(da un caffè con l'avvocato-pagina fb Studio Legale Avv. Maria Immacolata Sica del 12 agosto 2020)
Benvenuti al nostro consueto caffè settimanale.
Oggi parleremo di “ diritto al risarcimento danni del terzo trasportato di un sinistro stradale”
Nel caso di sinistro stradale può accadere che il c.d. trasportato, cioè il soggetto che è a bordo di uno dei mezzi coinvolti nell’incidente e che non è alla guida, riporti delle lesioni o comunque dei danni a cose di sua proprietà.
Il Codice delle Assicurazioni Private prevede fondamentalmente due differenti procedure di risarcimento del danno: la prima, cosiddetta “ordinaria”, da esperire contro l’assicuratore del responsabile del sinistro, anche nel caso in cui lo scontro sia avvenuto con veicolo immatricolato all’estero, disciplinata dagli articoli 145 e 148; e la seconda, definita di risarcimento diretto, promossa direttamente dal danneggiato nei confronti della propria compagnia assicurativa, che trova la sua base normativa nell’articolo 149.
A queste, però, si affianca una terza fondamentale azione volta proprio alla tutela del terzo trasportato, c.d. azione di risarcimento promossa dal terzo trasportato da avviare verso l’impresa assicurativa del veicolo su cui viaggiava al momento del sinistro.
Infatti, il terzo trasportato che si avvale dell’articolo 141 del Codice delle Assicurazioni Private, vedrà risarcito il danno subito - salva l’ipotesi di sinistro cagionato da caso fortuito - “dall’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro entro il massimale minimo di legge, fermo restando quanto previsto dall’articolo 140, a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti […].
L’art. 141 Cod. Ass. consente, dunque, al trasportato danneggiato, pur essendo egli un terzo estraneo al rapporto assicurativo, un’azione diretta verso l’assicuratore dell’auto su cui viaggiava.
Al riguardo, la Corte di
Cassazione ha rilevato che la nozione di “caso fortuito” utilizzata
dal legislatore deve essere innanzitutto interpretata in senso giuridico,
ossia comprensiva non solo di ogni evento naturale e imprevedibile, ma
anche della condotta umana idonea a causare l’evento. Pertanto l’espressione “salvo il caso
fortuito” non deve indurre a ritenere che l’art. 141 contempli una sorta di
responsabilità oggettiva del conducente, ma va considerata sotto un profilo
processuale inerente all’onere della prova. Con la sentenza n. 4147 del
13/02/2019, ha infatti puntualizzato che: “se il legislatore avesse inteso
oggettivizzare la responsabilità dell’assicuratore del vettore, sarebbe stato
logico - e più che mai per l’incipit sul caso fortuito - che l’inciso in
questione fosse stato: ‘a prescindere dall’accertamento della responsabilità
del conducente’, mentre ha usato l’accezione ‘salvo il caso fortuito’ “.
Pertanto, Il vantaggio
procedurale che il terzo trasportato ne trae consiste nella facoltà di esercitare
l’azione indipendentemente dall’accertamento del responsabile del sinistro e,
in caso di illecito imputabile a più soggetti, indirizzarla
indistintamente nei confronti di uno di essi. In proposito si segnala la
recente pronuncia chiarificatrice della Suprema Corte: “Il trasportato su
un veicolo a motore che abbia patito danni in conseguenza di un sinistro ascrivibile
alla responsabilità tanto del vettore, quanto del titolare di un terzo veicolo,
affinché possa pretendere il risarcimento integrale da uno
qualsiasi tra i due responsabili (e dai loro assicuratori della r.c.a.) o da
entrambi, in virtù del principio generale della solidarietà tra i coautori di
un fatto illecito di cui all’art. 2055 c.c., deve indicare la propria qualità di
trasportato nella ‘causa petendi’ della domanda risarcitoria, allegando che,
proprio in quanto trasportato, ha diritto all’integrale risarcimento e può
chiederlo a sua scelta a ciascuno dei responsabili“. (Cassazione
civile, sez. VI, 17/06/2019, n. 16143).
Alla luce di quanto innanzi,
dunque, si può asserire che il legislatore se da un lato ha riconosciuto al
terzo trasportato il diritto a
richiedere il ristoro dei danni subiti, dall’altro ha previsto una disciplina di favore per consentirgli di
ottenerlo nel modo più veloce possibile.
Infatti, la procedura da seguire per
ottenere la liquidazione dell’indennizzo è, come indicato nel comma terzo dell’articolo
141, quella prevista per il risarcimento ordinario dall’articolo 148 e
si applica ai sinistri avvenuti nel territorio della Repubblica tra due o più
veicoli a motore (cosiddetti sinistri multipli) identificati e coperti da
assicurazione obbligatoria coprendo tanto i danni alle cose trasportate di sua
proprietà, tanto i danni alla persona e può essere sintetizzata così come
segue:
1. il danneggiato deve inviare, tramite lettera raccomandata, una richiesta di risarcimento che deve contenere una serie di dati necessari per consentire alla Compagnia di effettuare un’offerta.
2. Entro 90 giorni dal ricevimento della documentazione la Compagnia assicuratrice è obbligata a formulare al danneggiato un’offerta di risarcimento oppure comunicare al danneggiato i motivi per i quali ritiene di non formulare nessuna offerta (si pensi al caso in cui la Compagnia ritiene che il sinistro non sia mai avvenuto). Il termine è ridotto a 60 giorni nel caso in cui il danneggiato abbia subito solo danni a cose.
3. Se la Compagnia
formula l’offerta, il danneggiato può accettare e di conseguenza la
Compagnia deve procedere al pagamento entro 15 giorni dal
momento in cui riceve l’accettazione; il danneggiato può non accettare l’offerta
ma la Compagnia dovrà comunque procedere al pagamento dell’importo previsto
nell’offerta medesima entro 15 giorni; il danneggiato può non
pronunciarsi entro 30
giorni dal momento in cui riceve l’offerta e la Compagnia dovrà anche
in questo caso procedere al pagamento dell’importo previsto nell’offerta medesima
entro 15 giorni. La somma, negli ultimi due casi, potrà essere considerata
quale acconto rispetto al risarcimento complessivo.
4. Qualora il termine per effettuare l’offerta (di 60 o 90 giorni a seconda delle situazioni) sia scaduto senza che la Compagnia abbia comunicato le sue intenzioni, il danneggiato prima di ricorrere al Giudice dovrà avviare la procedura per la negoziazione assistita, al fine di trovare una soluzione amichevole con la Compagnia assicuratrice.
5. Attendere l'ulteriore decorso dei 30 giorni, previsto dall'art. 3 D.L. 132/2014, e nel caso di silenzio della controparte, l’invito si intenderà rifiutato e si potrà dare avvio all'azione giudiziaria, ricorrendo al Giudice , sia esso il Giudice di Pace o il Tribunale, a seconda dell’importo del danno.
Tenuto conto della complessità della materia
di cui trattasi, si consiglia vivamente di rivolgersi e farsi assistere fin da subito da un avvocato al fine di
richiedere ed ottenere il giusto risarcimento.
Con l’auspicio che l’argomento di oggi sia stato di Vs. gradimento, vi rinnovo l’appuntamento al prossimo “ caffè con l’avvocato”.
Vi auguro di cuore una serena giornata. Ciao
(da un caffè con l'avvocato-pagina fb Studio Legale Avv. Maria Immacolata Sica del 29 luglio 2020)
Benvenuti al nostro consueto caffè!
Oggi parleremo di “Risarcimento danni causati da pneumatico o copertone abbandonato sulla carreggiata autostradale: chi paga?”
L’articolo 2051 del Codice Civile, sulla responsabilità per i beni in custodia, trova applicazione per gli oggetti incustoditi sulla carreggiata di strade ed autostrade? La giurisprudenza ritiene di sì. Nei casi di danni al veicolo per oggetti sulla carreggiata di strade e autostrade, l’Ente gestore è chiamato a rispondere dei danni e a risarcire il conducente, salvo il caso fortuito.
Pertanto, La presenza di corpi estranei in autostrada, qualora siano causa di sinistri, determina la responsabilità in capo all’ente gestore, il quale ha l’onere di mantenere la strada in condizioni tali da garantire la massima sicurezza della percorribilità. Questo sta a significare che il predetto dovrà intervenire prontamente in ogni circostanza in cui possa derivare una situazione di grave pericolo, rimuovendola nel più breve tempo possibile.
Al riguardo la Cassazione è chiara “piena configurabilità
del rapporto custodiale tra costoro
e la struttura autostradale, in ragione della destinazione della rete viaria
alla percorrenza veloce in condizioni di massima sicurezza per gli utenti.”
(Corte di Cassazione, 7 Aprile 2009, n. 8377) ed ancora “Risponde il gestore del servizio autostradale, ex
art. 2051 c.c., del danno provocato all'automobilista da un copertone
abbandonato sulla carreggiata; il custode, per liberarsi dalla
responsabilità non dovrà solo dimostrare la propria diligenza nella custodia,
ma dovrà provare che il danno è derivato da caso fortuito, che
potrà consistere anche nella condotta di un terzo o del danneggiato stesso”(
Corte di Cassazione, sentenza n.
10893/2016).
Alla luce di quanto innanzi, dunque, possiamo asserire che sarà sempre possibile proporre una causa contro l’ente gestore della rete autostradale al fine di ottenere un risarcimento danni e questi, ai fini della prova liberatoria, dovrà dimostrare che: 1. La situazione di pericolo e il successivo incidente sia derivato da caso fortuito, ovvero dal verificarsi di un evento imprevisto ed imprevedibile. In particolare “il caso fortuito sussiste nel momento in cui non sia trascorso un tempo ragionevolmente sufficiente affinchè l’ente gestore venga a conoscenza del pericolo e possa intervenire per eliminarlo”; 2. Di aver eseguito con la necessaria diligenza il controllo della strada e la conseguente e necessaria manutenzione. In questo caso all’ente responsabile spetta un controllo visivo continuo sulla qualità della manutenzione.
Ne consegue che il danneggiato che decide di agire per il riconoscimento del danno ha, quindi, l'onere di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, mentre il custode convenuto, per liberarsi dalla sua responsabilità, deve provare l'esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.
Pertanto, a carico dei proprietari o concessionari delle autostrade, per loro natura destinate alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, è configurabile la responsabilità per cosa in custodia, disciplinata dall'art. 2051 c.c., essendo possibile ravvisare un'effettiva possibilità di controllo sulla situazione della circolazione e delle carreggiate, riconducibile ad un rapporto di custodia.
All’uopo si menzionano: a) la sentenza n. 16/2013 del Giudice di Pace di Santhià (VC), con cui l’ente gestore dell’autostrada è stato condannato per i danni occorsi a un veicolo a seguito della presenza di un copertone sulla sede stradale, avendo l’ente omesso la prova del caso fortuito ovvero la prova del corretto assolvimento al dovere di custodia; b) la sentenza del 07/07/12 del Giudice di Pace di Ottaviano con cui, avendo l’attore provato che il fatto si è verificato su un tratto autostradale, avendo provato che sulla sede stradale vi era un pezzo di pneumatico ed essendo stata omessa la prova del caso fortuito da parte della società convenuta; ovvero la prova del corretto assolvimento al dovere di custodia, è stato ritenuto provato il diritto della parte attrice al risarcimento; c) la sentenza del 7 aprile 2008 del Giudice di Pace di Marigliano, con cui è stata dichiarata la responsabilità della soc. Autostrade per i danni conseguenti all’incidente avendo l’attore dimostrato l’evento dannoso ed il nesso eziologico tra detto evento e la cosa in custodia, mentre la convenuta sulla quale gravava una vera e propria presunzione di responsabilità, non ha offerto alcuna prova contraria liberatoria.
Alla luce di quanto innanzi, possiamo asserire che qualora un utente abbia subito danni a causa di oggetti giacenti sulla carreggiata di un’autostrada, potrà sempre presentare richiesta di risarcimento nei confronti della Società Autostrade ma, essendo i casi di contenzioso numerosi, il consiglio è quello di contattare un avvocato per valutare al meglio il caso specifico ed affrontare nel miglior dei modi la situazione.
Spero che l’argomento vi sia stato utile e non mi resta che rinnovare l’appuntamento al prossimo... “caffè con l’avvocato”. Ciao
(da un caffè con l'avvocato-pagina fb Studio Legale Avv. Maria Immacolata Sica del 22 luglio 2020)
Oggi parleremo di RISARCIMENTO DANNI DA INCIDENTE STRADALE: cosa fare per ottenere il giusto risarcimento? Molto spesso si sente parlare di sinistro stradale e di tutte le conseguenze ad esso legate. Ma che cosa vuol dire esattamente sinistro stradale? Possiamo dire che trattasi di sinistro stradale allorquando il danno rappresenta la conseguenza immediata e diretta cagionata da un veicolo a motore in circolazione. Il principio del risarcimento danni di un incidente stradale trova il suo fondamento nell’art. 2043 del Codice Civile, secondo cui “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”, ovvero, per legge, chi provoca un danno ad altri, anche senza l’intenzione o la volontà ma con colpa, deve risarcirlo. Nel caso in cui si resta coinvolti in un incidente avvenuto tra veicoli a motore, per i quali vi sia obbligo di assicurazione, i conducenti dei veicoli coinvolti o, se persone diverse, i rispettivi proprietari dovranno rispettare una precisa procedura e relativa tempistica. Di seguito, in breve, spiegherò l’iter da seguire qualora si resta vittime di un incidente stradale e si decida di procedere per ottenere il risarcimento dei danni subiti dal veicolo o a cose.
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Vi lascio una buona
e serena giornata.
(da un caffè con l'avvocato-pagina fb Studio Legale Avv. Maria Immacolata Sica del 15 luglio 2020)
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