Un caffè con l'Avvocato



Questa pagina del mio Blog sarà dedicata ad "un caffè con l'avvocato", rubrica del mercoledì in cui cercherò di rispondere, in modo semplice e conciso, alle domande e richieste più frequenti che quotidianamente mi vengono poste dai clienti. 

 

Trattasi di  argomenti che riguardano il diritto civile, l’infortunistica stradale, il recupero crediti, le controversie condominiali, il diritto di famiglia, il diritto del lavoro e della previdenza sociale.

 

Uno strumento in cui parlerò di fatti quotidiani, di diritto e quindi anche delle esperienze personali.

 

Uno spazio di approfondimento e di riflessione, in cui gli articoli saranno presentati con cadenza settimanale. 

 

 Buona lettura 😊




 


Avvocato Maria Immacolata Sica

- iscritta all'ordine degli Avvocati di Nocera Inferiore

- già Perito Assicurativo

- Corso di formazione per Amministratore di condominio







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Benvenuti a tutti voi amici!

Oggi ad un caffè con l'avvocato parleremo di Franchising. 

Il moderno concetto di franchising ha iniziato a diffondersi negli anni trenta con l'aumento di grandi catene di ristoran ed ha poi visto la sua espansione negli USA negli anni cinquanta con lo sviluppo delle grandi reti di fast-food. Il sistema franchising più attuale si applica ormai a tutti i settori, dalla rivendita al dettaglio ad ogni tipo di servizio.


Il franchising, o affiliazione commerciale, è un contratto atipico, ovvero esso  non è direttamente disciplinato dal Codice Civile.


Il Legislatore, infatti, è intervenuto per disciplinarlo solo in tempi relativamente recenti, con la Legge n. 129 del 6 maggio 2004, recante «Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale“. In attuazione della stessa, poi, è stato adottato il D.M. 2 settembre 2005, n. 204. 


Tra le varie novità introdotte vi è la costante volontà da parte del legislatore di tutelare l'affiliato, in quanto parte economicamente più debole, e che trova espressione in una più rilevante presenza di norme "protettive".


L'articolo 1 della legge n. 129/2004 definisce il francising come: "il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all'altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l'affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi".


Il franchising, dunque, è un accordo di collaborazione che vede da una parte un'azienda con una formula commerciale consolidata (affiliante, o franchisor) e dall'altra una società o un singolo imprenditore (affiliato, o franchisee) che aderisce a questa formula.


In quanto accordo commerciale, i soggetti si intendono economicamente e giuridicamente indipendenti, non quindi un rapporto di subordinazione ma un contratto di affiliazione commerciale che prevede oneri e benefìci per entrambe le parti.


Da un lato ci sarà, dunque,  una società (franchisor o affiliante) che possiede un marchio con il quale vende prodotti o eroga servizi con successo e che, con siffatto accordo, potrà espandere la propria rete, aumentare la notorietà del marchio e vedere maggiori profitti senza però dover gestire personalmente ogni punto vendita e senza dover sostenere tutti i costi.


Dall’altro lato, invece, una qualsiasi persona o società (franchisee o affiliato) che, interessata a mettersi in proprio, affiliandosi ad un brand noto e con un sistema gestionale testato sul mercato e semplificato, potrà avviare un’attività con successo anche senza possedere precedenti esperienze nel settore o esperienze imprenditoriali e con bassissimo rischio di fallimenti.


Esistono tre tipologie di franchising, ovvero il franchising di produzione, il franchising di distribuzione e il franchising di servizi. 


Nel franchising di produzione, l'affiliante è un impresa industriale che produce i propri beni e li distribuisce attraverso la propria rete di affiliati. 

Questo tipo di marchio è caratteristico del settore dell'abbigliamento, delle calzature, accessori, borse , mobili, e si caratterizza perché anche il prodotto è di marca.


Il franchising di distribuzione è un tipico strumento di commercializzazione di beni in un determinato ambito territoriale

Invero, qui, il franchisor funge da vera e propria centrale di acquisti. Seleziona i fornitori, acquista grandi stock di prodotto da diversi produttori e li ridistribuisce agli affiliati, i quali riceveranno quale vantaggio quello di avere un unico interlocutore che ha già selezionato per loro i prodotti.


Molto diffuso è anche il franchising di servizi.

In questo caso, non viene distribuito nessun prodotto ma vengono offerti dei servizi, i cui elementi identificativi e i cui termini di offerta sono standardizzati e predeterminati dal franchisor.

Rientra in questo settore il franchising della ristorazione, dei viaggi, della mediazione creditizia, dei servizi internet.


Il legislatore con la legge n. 129/2004, ha inoltre previsto una serie di obblighi sia per l'affiliante che per l'affiliato. 


Gli obblighi comportamentali riguardano l'affiliante oltre che l'affiliato ed entrambi hanno il dovere di comportarsi con lealtà, correttezza e buona fede.


L'affiliante è tenuto a riferire alla controparte ogni notizia che possa rivestire una importanza fondamentale per l'attività, in modo tempestivo e completo.


La legge 129/2004 non solo dunque disciplina i vari aspetti dell'affiliazione commerciale, ma definisce gli elementi tipici del contratto in maniera completa e precisa, cogliendone tutto l'aspetto innovativo.


Anche per oggi il nostro caffè termina qui, Vi aspetto settimana prossima per un nuovo argomento.


(Un caffè con l'avvocato del 05 novembre 2020 a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica




Un caro saluto a tutti Voi amici e benvenuti al nostro consueto caffè.

Oggi parleremo di una fattispecie molto diffusa di contratto, uno strumento che consente ad un soggetto di utilizzare un bene mobile o immobile senza versare alcun corrispettivo ossia il comodato.

Il comodato è un contratto “tipico” del nostro ordinamento in quanto la sua disciplina viene esplicitamente prevista dal codice civile, che lo regolamenta agli articoli 1803 e seguenti.

L’articolo 1803 del codice civile stabilisce che “il comodato è un contratto con il quale una parte (il comodante) consegna all’altra (il comodatario) un bene mobile o immobile, affinché costui se ne possa servire per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituirlo. Il comodato è essenzialmente gratuito.”

Anche se, ad una prima ed approssimativa lettura della definizione codicistica, il comodato possa presentarsi come un rapporto semplice e basato principalmente su uno scambio di fiducia e di cortesia tra le parti, in realtà esso è una scelta contrattuale piuttosto complessa, che può determinare molte volte l’insorgere di diverse problematiche e che, proprio per questo motivo, ha visto il legislatore concentrarsi in maniera specifica e con norme ben dettagliate. Ciò nonostante, spesso anche la giurisprudenza ha assunto un ruolo fondamentale nel chiarire la disciplina di una siffatta particolare tipologia contrattuale.

Di regola, il comodato è un contratto essenzialmente gratuito anche se non è esclusa la possibilità di far ricorso a un comodato c.d. “modale” o “oneroso”, con la sola accortezza che l’onere imposto dalle parti non debba avere una consistenza tale da far venir meno la natura tipica del contratto ovvero non dovrà mai trattarsi di un corrispettivo per il godimento della cosa. 

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha stabilito che può essere oneroso anche qualora il comodatario pagasse una somma periodica come rimborso di determinate spese (Sentenza Corte di Cassazione numero 3021/2001). 

Dal contratto di comodato discendono obblighi specifici per il comodatario (ossia per colui che prende in consegna il bene). A disporli è l’articolo 1804 del codice civile, secondo cui “il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli non può servirsene che per l’uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa. Non può concedere a un terzo il godimento della cosa senza il consenso del comodante. Se il comodatario non adempie gli obblighi suddetti, il comodante può chiedere l’immediata restituzione della cosa, oltre al risarcimento del danno”.

L’articolo del codice stabilisce dunque che il comodatario dovrà custodire e conservare il bene ricevuto con l’impegno tipico e dell’uomo medio. Non può inoltre concedere a terzi il godimento del bene, tranne il caso in cui abbia ricevuto il consenso del comodante, anche non in forma espressa e scritta.

Il comodatario, secondo quanto statuisce l’art. 1805, è responsabile se la cosa perisce per un caso fortuito a cui poteva sottrarla sostituendola con la cosa propria, o se, potendo salvare una delle due cose, ha preferito la propria. Inoltre, il comodatario che impiega la cosa per un uso diverso o per un tempo più lungo di quello a lui consentito, è responsabile della perdita avvenuta per causa a lui non imputabile, qualora non provi che la cosa sarebbe perita anche se non l’avesse impiegata per l’uso diverso o l’avesse restituita a tempo debito.

Per quanto poi riguarda le spese connesse all’utilizzo del bene, è ancora il codice, all’articolo 1808 a stabilire che è colui che utilizza il bene in comodato a dover sostenere le spese necessarie per servirsi della cosa senza poterne chiedere il rimborso. Colui che utilizza la cosa potrà comunque essere rimborsato delle sole spese straordinarie “sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti”.

Sul punto si è pronunciata la Cassazione asserendo che “il comodatario il quale, al fine di utilizzare la cosa, debba affrontare spese di manutenzione anche straordinarie, può liberamente scegliere se provvedervi o meno, ma, se decide di affrontarle, lo fa nel suo esclusivo interesse e non può,  conseguentemente, pretenderne il rimborso dal comodante” (Corte di Cassazione, sent. n. 18063/2018).

L’obbligo che grava sul proprietario del bene, invece,  riguarda eventuali vizi della cosa data in comodato. Se infatti questi vizi dovessero determinare dei danni a chi si serve della cosa, il comodante sarà tenuto a risarcirli se, pur essendo a conoscenza dei vizi, non ha avvertito il comodatario. 

L’articolo 1809 c.c. disciplina la restituzione della cosa alla scadenza del termine convenuto, stabilendo che il comodatario dovrà procedere alla riconsegna del bene. Se tuttavia, durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e improvviso bisogno al comodante, questi può esigerne la restituzione immediata.

Nel caso in cui nel contratto di comodato d’uso non sia previsto un termine per la restituzione del bene, l’art. 1810 c.c. stabilisce che il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede.

D'altra parte, lo stesso diritto di richiedere la restituzione immediata della cosa, sussiste nell’ipotesi di morte del comodatario. In questo caso il comodante potrà domandare agli eredi l’immediata restituzione anche se era stato convenuto un termine per la restituzione non ancora scaduto. A stabilirlo è l’articolo 1811 del codice civile.

Inoltre, Il contratto di comodato non è sottoposto a particolari formalità e può essere quindi stipulato in forma verbale. La forma con la quale esso è concluso, tuttavia, non è del tutto irrilevante, specie quando l'oggetto del contratto sia un bene immobile.

Invero, qualora l’oggetto del contratto di comodato fosse rappresentato da beni immobili esso sarebbe soggetto a registrazione presso l’Agenzia delle Entrate entro 20 giorni dalla data dell'atto se il contratto è stato redatto in forma scritta. Nel caso in cui, invece, il comodato sia stipulato verbalmente, la registrazione è necessaria solo se lo stesso sia enunciato in un altro atto sottoposto a registrazione.

Con l'auspicio che l'argomento sia stato interessante per tutti quanti voi, Vi rinnovo l'appuntamento a mercoledì prossimo sempre con "un caffè con l'avvocato". Ciao!

(Un caffè con l'avvocato del 21 ottobre 2020 a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica




Benvenuti al nostro caffè del mercoledì.

Oggi parleremo di "rumori molesti in condominio: come tutelarsi?"

Vivere in condominio, come ben sappiamo, non è sempre facile. Tante sono le problematiche che portano a discussioni tra i condomini. Una delle diatribe più frequenti è quella relativa alla problematica dei rumori.

Le attività rumorose in condominio, infatti, non di rado sono causa di diverbi e malumori tra i condomini in quanto generano fastidi e stress per chi si trova a subirne le conseguenze e ciò rende, a volte, insopportabile la convivenza all'interno dello stesso stabile.

In generale, si definisce molesto quel rumore che turba il riposo e la quiete delle persone. Normalmente si parla di soglia di tollerabilità quando il livello medio del rumore di fondo supera i 3,5 decibel. Questo parametro è principalmente il frutto di una elaborazione giurisprudenziale in quanto il Codice civile, all’art. 844, stabilisce solo che «non si possono impedire i rumori che non superano la normale tollerabilità», pertanto i suindicati limiti di decibel sono stati ritenuti dalla Corte di Cassazione come un punto di riferimento perfetto per venire incontro alle esigenze contrapposte dei contendenti. In questo modo, una definizione ampia di rumore molesto lascia un notevole margine decisionale al giudice che può valutare caso per caso il danno reale apportato dal disturbo ed agirà, a seconda del caso, per verificare l’intollerabilità del rumore prendendo in considerazione vari aspetti come l’insistenza, l’entità del rumore e il luogo in cui esso si verifica.

Ma quali sono questi rumori molesti? Semplificando, si possono far rientrare in rumori molesti tutti quei comportamenti più comuni che per loro natura causano danno agli altri come ad esempio: cani che abbaiano a tutte le ore, radio e tv ad alto volume, feste protratte fino a tarda notte,  motore dell'automobile acceso a lungo, rumore di tacchi, pianto dei bambini, utilizzo di martelli pneumatici o altri strumenti rumorosi.

Anche nel caso di lavori di ristrutturazione di un appartamento all'interno di uno stabile si devono seguire delle regole ben precise. Il buon senso impone che tali lavori non debbano essere eseguiti nelle fasce orarie destinate al riposo, nel fine settimana e nei giorni festivi.  Laddove vi sia necessità di lavorare negli orari vietati, il condomino interessato è obbligato a chiedere una deroga all'amministratore che a sua volta provvederà ad avvisare tutti gli altri condomini.

Al di là di tutte le predette considerazioni, se il rumore è insopportabile e il vicino non ne vuole sapere, cosa si può fare? Per tutelarsi da queste situazioni fastidiose è necessario, in primo luogo, verificare se nel regolamento condominiale esiste una clausola inerente ai divieti di attività rumorose. Nel caso in cui essa sia effettivamente presente, sarà necessario constatare se l’attività rumorosa coincida effettivamente con quella vietata. Solitamente, il regolamento condominiale stabilisce le ore destinate alla quiete e al riposo ovvero le fasce orarie in cui è possibile far rumore che vanno dalle ore 8.00 del mattino fino alle 13.00 e dalle ore 16.00 del pomeriggio fino alle 21.00. Al di fuori di queste, ogni rumore e schiamazzo può essere contestato in sede di assemblea condominiale. Ovviamente ogni condominio sceglie in modo autonomo questi orari che possono variare in base alle stagioni o alle esigenze degli abitanti.

Orbene, se il regolamento parla chiaro, non ci sono problemi e ci si può rivolgere all'amministratore di condominio, il quale ha facoltà di chiedere verbalmente o tramite lettera raccomandata la cessazione del rumore molesto in quanto è legalmente obbligato a far sì che i condomini rispettino il regolamento condominiale anzi, in caso di violazione di una norma, è tenuto a richiamare  il condomino responsabile del problema e questi, laddove il regolamento lo preveda, potrebbe essere finanche sanzionato.

Laddove, invece, nonostante il tentativo di dialogo con l’interessato, l'azione dell'amministratore cade nel nulla ed il condomino continua ad avere un atteggiamento reiterante, è consigliabile rivolgersi ad un avvocato che, dopo aver diffidato il responsabile, lo citerà in un regolare giudizio ai fini del risarcimento del danno e dell’inibitoria, ossia l’ordine ad interrompere il rumore. 

Evidentemente, in questi casi, non basta solo la testimonianza dei condomini ai quali viene arrecato il danno, ma sarà necessaria l’effettuazione di una perizia fonometrica redatta appositamente da un tecnico specializzato. Grazie a questo intervento potrà essere stabilito con certezza se il rumore può qualificarsi come molesto perché supera la normale soglia di tollerabilità.
Il giudice, prima di decidere, dovrà tenere in considerazione una serie di parametri ben definiti come: la collocazione dell'appartamento, l’intensità  del rumore, la persistenza del rumore, l’orario in cui il rumore viene prodotto.

Se il magistrato riconosce l'illecito civile, può condannare il colpevole per rumori molesti ed emanare un'ordinanza attraverso la quale ordina l'immediata cessazione delle molestie acustiche.

Attraverso un ricorso d'urgenza si può altresì stabilire in via equitativa un risarcimento a favore della parte lesa e l'ammontare è a totale discrezione del Tribunale.

Il giudice può stabilire anche un risarcimento in base all'articolo 2043 del codice civile qualora si  riesca a dimostrare che è stato riportato un danno effettivo a causa del comportamento del vicino. Sul punto, la Corte di Cassazione,  con una sentenza del 2016, ha stabilito che il caos generato dai vicino può dar luogo a un'effettiva compromissione dello stato psico-fisico della parte lesa.

E’ bene rammentare che i rumori molesti possono finanche integrare gli estremi di un vero e proprio reato: quello di disturbo alla quiete pubblica di cui all’art 659 del codice penale. In questo caso il disturbo deve essere generalizzato e diffuso ovvero i rumori oltre ad eccedere la “normale tollerabilità” dovranno poter essere avvertiti da un “numero indeterminato di persone”.

Al riguardo, la Cassazione ha, di recente, affermato che, «ai fini della configurabilità del reato di disturbo alla quiete pubblica non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare disturbo ad un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio».  Questo significa che se il rumore è avvertito da quasi tutti i condomini dello stabile, ma non anche da quelli dei palazzi limitrofi, si può ugualmente parlare di reato.

Qualora, dunque, si verificasse tale evenienza, sarà sufficiente fare una segnalazione alla polizia o ai carabinieri che provvederanno a fare le opportune indagini o, comunque, depositare, anche tramite avvocato, una denuncia presso la Procura della Repubblica per l’avvio del procedimento penale. Il giudice, ai fini della sua decisione, valuterà vari elementi probatori come le testimonianza dei condomini, l'effetto concreto del rumore e la quantità del disturbo arrecato alla comunità.

Alla luce di quanto innanzi, una considerazione va pur fatta. Se da un lato  ricorrere alle vie legali in caso di vicini rumorosi è una delle strade più semplici da scegliere soprattutto nel caso in cui la convivenza è  divenuta ormai insostenibile, dall'altro è d’obbligo tener presente che i tempi della legge possono rivelarsi estremamente lunghi e molte volte, anche se si dovesse vincere la causa, non sarà comunque facile ripristinare una situazione di calma e di tranquillità. Pertanto, è preferibile tentare sempre, fin quando possibile, la strada dell'accordo amichevole e del dialogo pacifico tra le parti.

Con l'auspicio che l'argomento trattato possa essere utile a tutti Voi, Vi lascio un cordiale saluto e Vi aspetto al prossimo caffè.

(un caffè con l'avvocato del 14 ottobre 2020 a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)




Benvenuti ad un caffè con l'avvocato.

Oggi tratteremo "Condominio: responsabilità per danni da caduta"

Tra i casi maggiormente frequenti di richieste di risarcimento del danno nei confronti del condominio troviamo indubbiamente quelle relative alle cadute dei condomini o di terzi all’interno delle parti  comuni del fabbricato condominiale ma riuscire ad ottenerlo non è sempre tanto semplice. Vediamo insieme il perché.

Il fondamento normativo della responsabilità del condominio per le cadute all’interno dello stesso è rinvenibile nell’art. 2051 c.c.: “Danno cagionato da cose in custodia”: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo caso fortuito”, ovvero, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 c.c., è sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia della cosa con l’evento lesivo, rapporto che implica l’effettivo potere sulla cosa, e cioè la disponibilità giuridica e materiale del bene, da cui deriva il dovere di intervento su di essa da parte del proprietario o anche del possessore o detentore.

Il custode, cioè, è il presunto responsabile dei danni provocati dalla cosa custodita anche se essa non è intrinsecamente pericolosa, ma diviene pregiudizievole in conseguenza di un processo dannoso provocato da  elementi esterni, a condizione che il custode non dimostri che il danno è derivato da caso fortuito, ivi compreso il fatto del terzo o dello stesso danneggiato.

Orbene, in linea di principio, il condominio, quale custode dei beni e servizi comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno ed,  in caso di caduta, in quanto custode dei beni comuni, è tenuto a rispondere dei danni causati ai condomini e ai terzi ai sensi dell'art. 2051 c.c.

Per la giurisprudenza maggioritaria, infatti, si tratta di un'ipotesi di responsabilità oggettiva configurabile in capo al condominio in virtù della sola relazione materiale sussistente con i beni in comune, pertanto, il condominio può essere chiamato a rispondere ex art. 2051 c.c. in conseguenza dei danni provocati dalla difettosità od omessa manutenzione  della cosa comune. Grava sull’ente, in qualità di custode, l’obbligo di mantenerla e conservarla in maniera tale da evitare danni a terzi (Trib. Bari III Sez. Civ. 30/08/2013 n.2489).

Tuttavia,  con sentenza n. 15042/2008, la Cassazione ha precisato che se il custode dimostra che il danno è determinato da cause estrinseche ed estemporanee ingenerate da terzi, non conoscibili né eliminabili repentinamente, neppure con la più diligente attività di manutenzione, esso è liberato dalla responsabilità per cose in custodia ovvero la responsabilità risulta esclusa soltanto quando "l'evento sia imputabile ad un caso fortuito riconducibile al profilo causale e cioè quando si sia in presenza di un fattore esterno che, interferendo nella situazione in atto, abbia di per sé prodotto l'evento, assumendo il carattere del c.d. fortuito autonomo, ovvero quando si versi nei casi in cui la cosa sia stata resa fattore eziologico dell'evento dannoso da un elemento o fatto estraneo del tutto eccezionale (c.d. fortuito incidentale), e per ciò stesso imprevedibile" (Cass. civ. 11695/2009).

Di conseguenza,  il danneggiato che intende ottenere il risarcimento dal condominio per essere caduto al suo interno avrà l'onere di provare innanzitutto di aver subìto un danno in conseguenza della caduta, che sussiste un nesso causale tra lo stesso danno e le parti condominiali, che la cosa era sotto la custodia del condominio, cioè trattasi di bene comune, che la situazione era oggettivamente invisibile e non prevedibile secondo la diligenza ordinaria.

Il condominio, dal canto suo, per esonerarsi da responsabilità, dovrà dimostrare che il danno non è eziologicamente riconducibile alla sua condotta ovvero che l'evento si è verificato per caso fortuito, vale a dire  per un accadimento eccezionale, imprevisto ed imprevedibile, che può essere integrato anche dal fatto di un terzo o dello stesso danneggiato. Invero, nel caso in cui l’evento sia da ascriversi esclusivamente alla condotta del danneggiato, il quale abbia interrotto il nesso causale tra cosa in custodia e il danno, si verifica una ipotesi di caso fortuito che libera il custode dalla responsabilità di cui all’art. 2051 c.c..

Al riguardo, il Tribunale di Bari ha precisato che il caso fortuito può consistere sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile ovvero non segnalabile nemmeno con la normale diligenza, sia nella condotta del danneggiato, ricollegabile all’omissione delle normali cautele esigibili in situazione analoghe.(Trib. Bari, Sez. Civ. II del 27/02/2014)

 Pertanto, il comportamento stesso del danneggiato può mitigare la responsabilità oggettiva del custode, “potrà escludersi che il danno sia cagionato dalla cosa, ridotta a mera occasione dell’evento, e ritenersi il caso fortuito”, quando anche in relazione alla mancanza di intrinseca pericolosità della cosa, la situazione di pericolo comunque venutasi a creare “si sarebbe potuta evitare attraverso un comportamento ordinariamente cauto”.  (Cass. III Sez Civ. n.25584/2013).

Alla luce di quanto innanzi, dunque, possiamo asserire che nonostante l’art. 2051 c. c. rappresenti un’ipotesi di responsabilità aquiliana oggettiva, il custode ne risponderà solo nel caso in cui il danno sia stato determinato da cause intrinseche della cosa, tali da costituire fattori di rischio conosciuti o conoscibili a priori dallo stesso ed il danneggiato, ai fini risarcitori,  dovrà comunque dimostrare che il pericolo non era suscettibile di essere previsto e superato attraverso l'uso della normale diligenza.

In tal senso anche il recente orientamento della Corte di Cassazione, la quale tornando ad  occuparsi ancora una volta del danno da cose in custodia e dei limiti entro cui opera la responsabilità del Condominio, con l'ordinanza n. 8478/2020, ha sostenuto che “ in tema di responsabilita' civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento danno: quanto piu' la situazione di possibile danno e' suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto piu' incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso”.

E per oggi il nostro caffè è terminato, ci rivediamo al prossimo. Buona giornata!

(un caffè con l'avvocato del 07 ottobre 2020 a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)


Benvenuti ad un caffè con l'avvocato!

Oggi ci occuperemo di un argomento che non di rado è causa di ponderosi litigi: Panni stesi in condominio e i limiti previsti dalla legge.

Capita spesso in condominio che, in mancanza di spazi o locali espressamente adibiti all'uso, per asciugare i panni, i condomini ricorrano a stenditoi mobili o supporti esterni al balcone i quali, però, se non utilizzati con le dovute cautele, normalmente dettate dal buon senso, finiscono col rappresentare occasione di ampie ed accese discussioni.

Infatti, non si possono appendere indumenti bagnati, lenzuola e biancheria a piacimento ma ci sono dei limiti previsti dalla legge che vanno osservati e rispettati.

Innanzitutto c’è da dire che non vi è alcuna norma del Codice Civile che disciplina questa materia, pertanto occorre far riferimento ai regolamenti condominiali e comunali.

Il regolamento condominiale, adottato a maggioranza dall'assemblea, oltre a disciplinare l’uso delle cose comuni e il decoro dell’edificio, può anche regolamentare la gestione dei panni stesi.

Invero, il regolamento può imporre orari e luoghi nei quali è vietata l’esposizione degli indumenti e della biancheria e ciò sia per evitare di pregiudicare il godimento della cosa comune da parte degli altri condomini, sia per salvaguardare l'estetica e il decoro del palazzo, sia ancora per evitare liti condominiali conseguenti allo sgocciolamento dell’acqua di scolo nella proprietà altrui.

Un divieto a stendere i panni dal balcone, se non proveniente dal regolamento di condominio, potrebbe essere contenuto in quello comunale.

Quest’ultimo, infatti, può prevedere il divieto di esporre, stendere o appendere per qualsiasi motivo alla vista del pubblico biancheria, panni e simili, fuori dalle finestre, sui terrazzi, balconi, poggioli antistanti a pubbliche vie e luoghi aperti al pubblico, oppure concedere la possibilità di sbattere ed esporre il bucato solo in determinate ore della giornata, il tutto al fine di preservare il pubblico decoro.

Le regole possono essere diverse da Comune a Comune ed in caso di violazione della norma comunale è prevista una sanzione di tipo amministrativo, ossia una multa da pagare a seguito di un controllo da parte della polizia urbana.

In merito poi alla salvaguardia del decoro architettonico, la legge non prevede sanzioni se un condomino stende i panni a vista e, in assenza di regolamenti condominiali o di polizia urbana, si deve  ritenere che in generale lo stendimento dei panni su di un balcone condominiale "constando non in un'opera materiale ma in un'attività comportamentale che viene posta in essere occasionalmente, non può essere considerato come un elemento di deturpamento del decoro architettonico, per il quale si richiede appunto il compimento di opere materiali idonee a modificare stabilmente le linee strutturali del fabbricato". (Manuale pratico del nuovo condominio, Maggioli Editore, 2013)

Sul punto si è espressa la Cassazione, che  ha ritenuto non lesiva del decoro architettonico l’esposizione di panni su un balcone o all'esterno delle finestre, trattandosi di un comportamento saltuario che non modifica stabilmente le linee architettoniche dell’edificio, né quella di stracci e tendaggi sul lastrico solare condominiale, trattandosi di oggetti collocati provvisoriamente e facilmente rimovibili.(Cass. Civ. ord. n. 1326 del 30.01.2012)

L’orientamento è stato successivamente condiviso anche da altri giudici.

Al riguardo, però, una riflessione va pur fatta.

Invero, se da un lato, stendere i panni sul balcone, sul terrazzo o sul lastrico non incide sul decoro architettonico dell’edificio in quanto trattasi di posa temporanea di oggetti rimovibili e non di opere edili incidenti sulla sagoma o la facciata del fabbricato, dall'altro, è innegabile che, se su tutti i balconi dovessero essere stese lenzuola, camicie e biancheria intima, non sarebbe certo un bel vedere. Pertanto, in assenza di clausole regolamentari, sarebbe opportuno usare il buon senso e scegliere di stendere i panni in cortile, magari sul fronte laterale o interno e non sulla facciata principale del palazzo.

È possibile che né i regolamenti di condominio né i regolamenti comunali, contengano divieti a stendere i panni dal balcone pur tuttavia, in mancanza, resterebbe comunque l’obbligo di non arrecare molestie ai vicini di casa. Pertanto, non sarà mai possibile agire in maniera del tutto incontrollata in quanto ci sono sempre delle regole che, in ogni caso, vanno rispettate e, se violate, renderebbero giuridicamente lo stendere i panni in maniera impropria un comportamento lesivo dei diritti altrui.

In primo luogo, la biancheria non deve mai sgocciolare sulla proprietà altrui.

La Cassazione ha più volte sostenuto che non si possono stendere i panni se l’acqua bagna il balcone del piano di sotto.

 A tal proposito, con la sentenza numero 7576 del 28 maggio 2007, la Suprema Corte  ha addirittura affermato che lo "stillicidio, sia delle acque piovane, sia, ed a maggior ragione, di quelle provenienti (peraltro con maggiore frequenza) dall'esercizio di attività umana, quali quelle derivanti dallo sciorinio di panni mediante sporti protesi sul fondo alieno (pratiche comportanti anche limitazioni di aria e luce a carico dell'immobile sottostante), per essere legittimamente esercitato, debba necessariamente trovare rispondenza specifica in un titolo costitutivo di servitù ad hoc o, comunque, essere esplicitamente previsto tra le facoltà del costituito diritto reale".

Ed ancora, non sussiste alcun titolo che si esprima in termine di servitù del “gocciolio”. Sul punto la Suprema Corte ha osservato che la biancheria può essere stesa solo negli spazi condominiali e purché non vi sia il cosiddetto “gocciolio” (Cass. Civ. sentenze n. 6129/2017 e n. 8223/2018)

La presenza di un balcone implica solo il diritto di affacciarsi e, quindi, alla veduta e all'aria ma non anche il diritto di sporcare o bagnare il balcone di sotto.  Il Supremo Collegio ha evidenziato che, quando un condomino agisce in giudizio per far rimuovere gli stenditoi dai balconi sopra il proprio terrazzo e farne cessare il relativo gocciolio, esercita un'azione per eliminare una «servitù», cioè eliminare il diritto dell’altro condomino di stendere (e quindi far sgocciolare) i panni. (Cass. Civ. Sent. n. 14547/2012)

Non è tutto. Si potrebbe, altresì, ipotizzare il reato di molestia, così come affermato dal Tribunale di Bari con la sentenza del 3 ottobre 2017, secondo la quale integra questa fattispecie di reato il comportamento del condomino che costringe il proprietario del balcone o del terrazzo sottostante a subire continuamente lo sciorinio dei panni intrisi d'acqua, si tratta, infatti, di una condotta valida a disturbare la quiete e ad ingenerare stati nervosi nel vicino di casa.

Ed ancora, laddove lo stendere i panni gocciolanti diventi un atteggiamento continuativo e reiterato, tale condotta potrà qualificarsi anche come reato in base all'art. 674 del Codice Penale, dedicato al «getto pericoloso di cose»: «Chiunque getta o versa in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino ad un mese o con l'ammenda fino a duecentosei euro».

Alla luce di quanto innanzi, dunque, possiamo concludere asserendo che se da un lato i panni in condominio possono essere sempre stesi, con l’osservanza delle regole in materia e/o in ragione del buon senso, dall'altro sarà sempre necessario avere la prontezza e l’oculatezza di strizzarli bene al fine di non creare gocciolamenti ed evitare che  il vicino possa sporgere querela.

Con l'auspicio che l'argomento sia stato di Vs. gradimento, vi rinnovo l'appuntamento al prossimo caffè.

Buona giornata a tutti

(un caffè con l'avvocato del 30 settembre 2020 - a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)





Un affettuoso benvenuto a tutti Voi.

Nel nostro consueto caffè del mercoledì parleremo di un argomento che, non di rado, finisce col diventare causa di vertenze giudiziarie ovvero la sosta dell'auto o di altro mezzo nelle parti comuni di un condominio, quale il cortile, il giardino e finanche il viale di ingresso.

In condominio, secondo quanto previsto dall'art. 1117 del codice civile  o negli atti di acquisto o nel regolamento condominiale contrattuale, i posti auto/parcheggi possono essere:

1. di proprietà del condominio, ossia di tutti i condomini secondo millesimi. Pertanto,  costituiscono a tutti gli effetti parti comuni e possono essere utilizzati indistintamente da tutti i condomini (o in modo turnario, ove siano insufficienti). Essi possono anche essere affittati ai condomini o a terzi, a seguito di delibera assembleare;

2. di proprietà esclusiva, ossia di uno o più condomini. In questo secondo caso, ciascuno è proprietario di una specifica sezione;

3. in uso esclusivo, quando sono assegnati da atti notarili e/o regolamenti in uso esclusivo a uno o a più condomini.

In questi ultimi due casi, essi vengono utilizzati direttamente dai proprietari, dai titolari del diritto di uso o dai loro aventi causa.

Una delle principali novità apportate dalla riforma del condominio, all'elenco di cui al punto 2 dell'art. 1117 c.c. sulle parti comuni è l'inserimento esplicito delle "aree destinate a parcheggio".

Sebbene il  principio ispiratore della norma è da sempre quello di considerare comuni tutti gli spazi e i locali utili per fornire servizi alla collettività dei condomini, tuttavia, l'aver previsto espressamente le predette aree tra i beni comuni, produce quale risultato una tutela diretta e rafforzata della proprietà delle stesse. Infatti, essendo state incluse nell'elenco di cui art. 1117 c.c., non sarà necessario che il singolo condomino ne dimostri la comproprietà, ma sarà sufficiente, al fine della presunzione della natura condominiale, che tali beni siano funzionali al servizio o al godimento collettivo  ovvero che siano strutturalmente collegati con le unità immobiliari di proprietà esclusiva in un rapporto di accessorietà.

Per quanto attiene le tipologie di parcheggio condominiale queste possono essere diverse, in ragione alla natura stabilita in fase di costruzione o, se eventualmente la superficie adibita a tale scopo non fosse in grado di contenere tutti i veicoli dei condomini, di realizzazione ex novo di spazi da adibire a parcheggi, secondo le disposizioni e le maggioranze previste in tema di innovazioni dall'art. 1120 c.c., ovvero di modifica della destinazione d'uso di una parte comune, secondo le maggioranze previste dal nuovo art. 1117-ter, purché non rechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o alterino il decoro architettonico dell'edificio.

Invero, negli ultimi anni, a seguito del rapido sviluppo della circolazione automobilistica e delle problematiche ad essa connesse, alcune parti condominiali, diversamente da quanto previsto in costruzione, sono state  destinate ad area di sosta.

In alcuni casi sono stati realizzati veri e propri posti auto delimitati, in altri è stata prevista la possibilità di sosta a rotazione, oppure il parcheggio solo in alcuni giorni.

Tra le parti comuni da destinare a parcheggio è ormai pacifico, in giurisprudenza, l'utilizzabilità del cortile comune, tra le cui destinazioni accessorie, oltre a quella principale di dare aria e luce alle varie unità immobiliari, "rientra quella di consentire ai condomini l'accesso a piedi o con veicoli alle loro proprietà, di cui il cortile costituisce un accessorio, nonché la sosta anche temporanea dei veicoli stessi, senza che tale uso possa ritenersi condizionato dall'eventuale più limitata forma di godimento del cortile comune praticata nel passato" (Cass. n. 13879/2010).

In tal caso sarà l’assemblea a decidere di adibire il cortile a parcheggio di autovetture, ma a tal fine sarà necessario il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all’assemblea, in rappresentanza di almeno i 2/3 del valore millesimale dell'intero edificio ovvero 667/1.000. 

È, altresì, possibile destinare a parcheggio l'area del giardino condominiale, "interessata solo in piccola parte di alberi d'alto fusto e di ridotta estensione rispetto alla superficie complessiva" che non dà luogo ad "innovazione vietata dall'art. 1120 c.c., non comportando tale destinazione alcun apprezzabile deterioramento del decoro architettonico, né alcuna significativa menomazione del godimento e dell'uso del bene comune, ed anzi da essa, derivando una valorizzazione economica di ciascuna unità abitativa e una maggiore utilità per i condomini" (Cass. n. 15319/2011).

In questo caso, però,  la delibera dovrà essere preferibilmente presa all'unanimità , infatti, è  recente una pronuncia della Corte di Appello di Cagliari, Sez, I., con cui è stato stabilito che quando l’innovazione deliberata a maggioranza (e  non all'unanimità) contempla, per la realizzazione di un parcheggio, l’abbattimento di alberi, la delibera è nulla in quanto trattasi di una decisione che comporta la distruzione di un bene comune e dunque una innovazione che limita i diritti degli altri condomini (sfavorevoli o astenutesi) su beni in comproprietà (Corte di Appello di Cagliari, sez. I, Sentenza 14 Marzo 2019)

Quale che siano le circostanze nel caso concreto, in assenza di un regolamento o delibere sul punto, il principio che resta fermo è quello “della parità di godimento tra tutti i condomini”, pertanto l'uso e il godimento dei parcheggi spettano a tutti i condomini, secondo quanto stabilito dall'art. 1102 c.c «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa».

Il dettato normativo richiamato, da un lato, consente a ciascun condomino l'utilizzo degli spazi comuni a condizione che non ne alteri la destinazione e non ostacoli agli altri di farne pari uso e, dall'altro, impedisce che, sulla base del criterio del valore delle singole quote, possa essere riconosciuto ad alcuni il diritto di fare un uso del bene, dal punto di vista qualitativo, diverso dagli altri.

Alla luce di quanto innanzi, dunque, nel caso di parcheggi condominiali insufficienti a contenere contemporaneamente le autovetture di tutti i condomini, la giurisprudenza ha affermato la legittimità della disciplina turnaria dei posti macchina, la quale lontano dall'implicare l'esclusione di un condomino dall'uso del bene comune, "è adottata per disciplinare l'uso di tale bene in modo da assicurarne ai condomini il massimo godimento possibile nell'uniformità di trattamento e secondo le circostanze" (Cass. n. 12873/2005), purchè l'uso turnario del parcheggio sia distribuito in modo che tutti i condomini abbiano gli stessi diritti sui posti auto, sebbene cadenzati in diversi momenti (Cass. n. 12486/2012; Cass. n. 26630/2018). 

A tal fine, sarà necessaria una delibera adottata con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti, in rappresentanza di almeno 500/1.000. 

Se l’assemblea non si mette d’accordo o decide di non approvare alcun turno è diritto del singolo condomino rivolgersi al giudice per indurre il condominio ad adottare delle rotazioni nell'assegnazione dei posti auto.

Inoltre, se nell'area destinata a parcheggio vi sono dei negozi, è possibile chiuderla con un cancello o con una sbarra automatica, ma è necessario dotare i condomini della relativa chiave o congegno di apertura e chiusura, e lasciare aperto un passo pedonale che consenta alla clientela di accedere ai negozi esistenti nell’edificio. Per introdurre questa modifica, sarà sufficiente il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all’assemblea, in rappresentanza di almeno 500/1.000.

Al riguardo la Cassazione è stata chiara: “ Il proprietario di uno dei negozi presenti nel condominio non può pretendere che i propri clienti parcheggino nel cortile comune, poiché il Codice civile vieta ai partecipanti di fare uso della cosa comune in modo da compromettere l’uso, attuale o potenziale, degli altri condomini”. (Corte di Cassazione 30/3/2009, n. 7637)

In conclusione, è evidente che la sempre più frequente difficoltà di rinvenire un parcheggio sulla strada provochi, di per sé, l’avanzare sempre più  consueto di pretese per l’occupazione di maggiori spazi comuni presenti nel condominio.

Naturalmente ciò sarà possibile solo tenendo in considerazione che, nella disciplina vigente, relativamente all'utilizzo delle parti comuni, vige un principio fondamentale quale il rispetto del pari diritto altrui,  ragion per cui Il parcheggio in tanto sarà consentito in quanto  non impedisca agli altri condomini l’accesso ai locali di proprietà individuale, non comporti una diminuzione rilevante dell’aria e della luce nelle unità immobiliari circostanti e non crei una situazione di pericolo.

Laddove, poi, si realizzi una violazione, occorrerà procedere affinché la stessa sia eliminata o impedita, anche mediante la previsione di sanzioni ad hoc.

Invero, in conformità a tale esigenza, il codice civile stabilisce che i condomini possono deliberare la comminazione di sanzioni, ove le stesse siano indicate espressamente nel regolamento in ragione della avvenuta violazione.

Siffatta sanzione avrà  chiaramente la funzione di deterrente ma, non è raro, che, laddove la stessa venisse irrogata, previa assunzione di adeguata delibera, ma non adempiuta dal condomino trasgressore, il Condominio potrà comunque agire in giudizio perché la stessa trovi  attuazione mediante azione esecutiva.

Con l'auspicio che abbiate trovato interessante questo argomento trattato nella nostra rubrica settimanale, Vi abbraccio calorosamente e vi rinnovo l'appuntamento al prossimo mercoledì...sempre con "un caffè con l'avvocato". Ciao

(un caffè con l'avvocato del 23 settembre 2020 - a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)



Benvenuti al nostro caffè del mercoledì.
Oggi parliamo di un argomento che  interessa tutti gli automobilisti, le tremende multe per eccesso di velocità.
Nello specifico della “Illegittimità della sanzione amministrativa per violazione dei limiti di velocità rilevata da un autovelox sul lato opposto al senso di marcia se l’installazione è stata autorizzata per l’altro senso di marcia”.
Invero, l’installazione di un misuratore elettronico di velocità genera un affidamento nell'utente della strada. Questi deve essere posto nelle condizioni di sapere in modo chiaro e preciso che in quel tratto non gli è concesso viaggiare oltre una certa velocità e che, se lo farà, un’apparecchiatura automatica − e non un agente − gli contesterà l’infrazione. Inoltre, l’installazione di un misuratore avrà anche l’ulteriore funzione di tutelare il bene più prezioso che è la sicurezza e l’integrità fisica.
Chiaramente il senso di marcia individua con precisione una strada che non può essere indicata unitariamente con la strada di senso contrario. Per questo motivo ogni strada, nella sua autonomia, deve mantenere la segnaletica che la riguarda in modo preciso, senza poter riportare delle indicazioni che controllano invece un’altra strada, anche se si tratta semplicemente di quella che viene indicata con il senso di marcia contrario.
Quindi se un qualsiasi Ente colloca un semplice dispositivo con rilevatore inserito e lo considera valido, a priori, per entrambi i sensi di marcia, non lo può fare. Il dispositivo è legittimato a rilevare la velocità dei soli veicoli provenienti nel senso di marcia stesso dell’autorizzazione, e non anche per tutti quelli nella direzione opposta.
Secondo quanto specificato dalla Cassazione, se il decreto prefettizio indica un solo senso di marcia, allora il rilevamento di un autovelox che è posto dalla parte opposta deve essere considerato illegittimo. Il rilevamento elettronico della velocità e l’attività di accertamento degli agenti stradali potranno essere considerati validi solo se si riferiscono all'autovelox posizionato in conformità al decreto autorizzativo.
L’argomento è stato ben chiarito dalla Corte di Cassazione, sesta sezione civile, nell'ordinanza n. 30323/2018. L’apposizione della struttura che contiene l’autovelox, nel caso in cui sia stata autorizzata per entrambi i sensi di marcia, emette multe valide appunto in entrambe le corsie o carreggiate. Ovviamente è possibile che un rilevatore elettronico della velocità di percorrenza posto in un senso di marcia sia in grado di intercettare anche la velocità delle auto che provengono dal senso di marcia opposto. In questo caso la rilevazione del lato opposto dovrebbe essere illegittima, se lo strumento è segnalato solo in una corsia o carreggiata e non nell'altra, tramite la segnaletica di avviso.
Pertanto, per rilevare la velocità anche nel senso opposto, l’ente dovrà ivi  installare un secondo rilevatore, corredato di tutti gli elementi di identificazione e preventivamente segnalato, con appositi cartelli, opportunamente collocati in quel senso di marcia.
Ma vi è di più. Con ordinanza n. 12309/19, la Corte di Cassazione ha chiarito che in sé non è illegittimo il fatto che il rilevatore di velocità intercetti anche una vettura che transita sul contrapposto senso di marcia, in quanto, se da un lato, non è necessario che il prefetto specifichi sul provvedimento autorizzatorio dell’installazione in quale lato della strada debba essere collocato il macchinario, tuttavia, se nell'ordinanza prefettizia è stato precisato il senso di marcia interessato dalla rilevazione dell’autovelox, non sarà poi possibile accertare la violazione commessa sulla carreggiata o sulla corsia opposta.
In altri termini, la competenza ad individuare le strade o i tratti di strada in cui possono essere installati dispositivi di controllo della velocità è del prefetto, ma la norma di legge non richiede che il provvedimento amministrativo autorizzatorio specifichi necessariamente il senso di marcia interessato dalla rilevazione. Se, invece, il provvedimento lo precisa allora l’attività di accertamento potrà ritenersi legittima solo se circoscritta all'autovelox posizionato sul lato indicato dal prefetto e non su quello opposto.
Alla luce di quanto innanzi, si può dunque asserire che l'autovelox collocato su un lato della carreggiata, bensì autorizzato per il lato opposto, non è idoneo a rilevare la velocità dei veicoli che percorrono l'inverso senso di marcia. Per l’effetto, siffatta circostanza determina l'illegittimità derivata del verbale col quale si contesta l’eccesso di velocità, intercorrendo un rapporto di presupposizione - consequenzialità immediata tra l'atto autorizzato, ed illegittimamente seguito, ed il verbale di accertamento.
E’ sulla base di questa considerazione che la Corte di Cassazione, II sezione Civile, con sentenza n. 31411 del 2 dicembre 2019, ha confermato la decisione con cui era stata annullata una multa per eccesso di velocità, elevata a seguito di accertamento eseguito dagli agenti di Polizia per tramite di autovelox fisso.
Nella specie il Comune aveva apposto, su un solo lato della carreggiata, un prefabbricato contenente uno strumento di tipo autovelox per la rilevazione della velocità degli autoveicoli in transito su ambedue i sensi di marcia.
Il prefetto aveva sì autorizzato l’installazione di autovelox per entrambi i sensi di marcia, con una postazione di rilevamento per ogni lato della carreggiata, ma la stessa era stata realizzata per un solo senso di marcia, apponendo il prefabbricato di rilevazione in una carreggiata opposta al senso di marcia indicato nel provvedimento di autorizzazione.
In sostanza il Comune ha ritenuto di collocare un semplice prefabbricato considerandolo (e non lo avrebbe potuto fare) operativo per entrambi i sensi di marcia, senza tenere conto che il prefabbricato installato, per il senso stesso dell’autorizzazione, era legittimato a rilevare la velocità dei soli veicoli provenienti in quel senso di marcia ma non anche, come è avvenuto nel caso in esame, per le autovetture che provenivano dalla direzione opposta.
(un caffè con l'avvocato del 16 settembre 2020 - a cura dell'Avv. Maria Immacolata Sica)



Benvenuti al consueto appuntamento con la rubrica  “un caffè con l’avvocato”.

Oggi ci occuperemo di “L’ Amministratore di condominio: chi è, quali sono i suoi compiti, quando è obbligatoria la sua nomina.”

Iniziamo col dire che l'amministratore di condominio è una figura molto  importante per la gestione degli immobili ed il suo operato è disciplinato dalla legge.

L'amministratore di condominio è nominato dall'assemblea dei condomini per agire e rappresentare il condominio in loro vece. L'amministratore è il responsabile delle parti comuni dell'edificio cioè quelle definite dall' art. 1117 c.c. e dal regolamento di condominio. Egli non ha alcun potere né rappresentanza in merito alle parti private dell'edificio quali i singoli appartamenti.

L’incarico di amministratore di condominio può essere svolto da tutti coloro che posseggono una serie di requisiti ovvero :

  1. hanno il godimento dei diritti civili;
  2.  non sono stati condannati per delitti contro la Pubblica Amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni;
  3.  non sono stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione;
  4. non sono interdetti o inabilitati;
  5. il cui nome non risulta annotato nell’elenco dei protesti cambiari;
  6. hanno conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado;
  7. hanno frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale.”

Questi ultimi due  requisiti  non sono necessari qualora l’amministratore venga  nominato tra i condomini dell’edificio.

L’incarico di amministratore può essere espletato anche da una società.

La durata dell’incarico è di un anno, rinnovabile di un altro anno se non viene revocato.

La professione è molto delicata e piena di responsabilità, pertanto è obbligatorio dotarsi di assicurazione professionale.

Invero, successivamente alla nomina, l’amministratore dovrà svolgere una serie di compiti ed osservare diversi doveri, che qui di seguito andrò a sintetizzare:

 

1.  Al momento dell'accettazione della nomina l'amministratore deve:

  • comunicare i propri dati anagrafici e professionali, in particolar modo il codice fiscale, il luogo in cui saranno custoditi i registri del condominio e gli orari in cui saranno consultabili,
  • deve apporre sul luogo di accesso al condominio le proprie generalità e recapiti, anche telefonici,
  • deve associare al proprio il codice fiscale del condominio presso l'Agenzia delle Entrate,
  • volturare tutte le utenze del condominio,
  • effettuare il formale passaggio di consegne con l'amministratore precedente,
  • presentarsi nella filiale in cui è aperto il conto corrente condominiale per depositare la propria firma o aprire un conto per conto del condominio.

 

2.  Nel corso del mandato l'amministratore deve:

·         convocare l'assemblea dei condomini annualmente e di eseguirne le delibere,

·         disciplinare l'uso delle parti condominiali e la fruizione dei servizi nell'interesse comune, in tal senso il codice civile gli fornisce la possibilità di prendere decisioni che i condomini devono obbligatoriamente rispettare,

·         deve incassare le rate condominiali e pagare i fornitori utilizzando per tutti pagamenti erogati o ricevuti un apposito conto corrente condominiale intestato al condominio,

·         agire contro i condomini morosi anche per vie legali. L’amministratore può sottrarsi a questo dovere solo se l'assemblea lo esonera esplicitamente da questo compito,

·          far rispettare il regolamento di condominio,

·         provvedere a tutti i dovuti ADEMPIMENTI FISCALI,

·         curare la tenuta dei registri del condominio, conservarli e renderli disponibili alla consultazione dei singoli condomini.


3.     A fine anno l’amministratore deve:

·      redigere il rendiconto o bilancio condominiale annuale della gestione e convocare l'assemblea per la sua approvazione.

·      consegnare tutta la documentazione relativa al condominio e ai singoli condomini, nel caso di cessazione dell'incarico. Se l'amministratore non ottemperasse a quest'obbligo incorrerebbe nel reato di appropriazione indebita.

 

Ma quando in un condominio è obbligatorio nominare l’amministratore? A seguito della riforma attuata con la legge 220/2012, è cambiata la soglia al di sopra della quale è divenuta obbligatoria la nomina dell'amministratore condominiale.

Infatti,  alla luce della predetta legge di Riforma, la nomina di un amministratore in un fabbricato condominiale è obbligatoria esclusivamente in presenza di almeno nove condomini, nei casi diversi non vi è alcun obbligo di nomina.

Al riguardo, L’ articolo 1129 del Codice Civile, al primo comma, recita “Quando i condomini sono più di otto, se l'assemblea non vi provvede, la nomina di un amministratore è fatta dall'autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini o dell'amministratore dimissionario”.

La maggioranza necessaria per nominare l’amministratore richiede il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all’assemblea, in rappresentanza di almeno 500/1.000, anche in seconda convocazione. Se l’assemblea non decide, l’amministratore viene nominato dal Tribunale su ricorso anche di un solo condomino.

Per concludere va ricordato che l’amministratore di condominio può essere revocato per "gravi irregolarità" in qualsiasi momento, con la stessa maggioranza prevista per la nomina. Si precisa che la revoca deve avvenire per giusta causa, ossia per mancato adempimento ai propri doveri in quanto,  laddove la revoca avvenisse senza motivazioni addebitabili alla colpa del professionista, quest’ultimo potrebbe rivendicare il diritto al risarcimento del danno subito, in base al corrispettivo  annuale ancora dovutogli.

Anche per oggi “un caffè con l’Avvocato” è terminato. Con l’auspicio di essere stata il più esaustiva possibile, vi auguro una buona giornata e rinnovo l’appuntamento con la nostra rubrica a mercoledì prossimo.

 

(un caffè con l'avvocato del 02 settembre 2020)


 


Benvenuti ad "un caffè con l'Avvocato".


Oggi parleremo di "Lastrico solare condominiale: come ripartire le spese di manutenzione".

Per prima cosa, è importante capire cosa si intende per lastrico solare.

Il lastrico solare è la superficie terminale di un edificio che funge da copertura (al pari del tetto) delle sottostanti unità immobiliari,  caratterizzato da una superficie impermeabilizzata e pavimento piano  e che può essere di proprietà comune (che, in tal caso, possono usarlo per stendervi i panni, accedervi etc.) o in uso esclusivo ad un singolo condòmino o ancora appartenere anche a chi non detiene nessuna proprietà nel condominio. In quest’ultimo caso, il soggetto in questione va considerato a tutti gli effetti un condomino laddove la proprietà del lastrico solare sia legata al diritto di sopraelevazione. Il lastrico, inoltre, può essere accessibile o inaccessibile e quindi munito o sprovvisto di parapetto.

Al riguardo, sarà sufficiente verificare il regolamento di condominio e gli atti di acquisto degli appartamenti da cui risulterà la diversa destinazione dell’area rispetto alla proprietà condominiale.

Il lastrico solare deve essere mantenuto in buone condizioni. Pertanto, è sempre necessario eseguire periodicamente dei lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria, quali ad esempio sostituire la guaina, le piastrelle della pavimentazione, ecc.

Orbene, chiarito il concetto di lastrico solare, chi paga le spese ad esso relative?

Il principio generale in tema di riparto delle spese nel condominio di edifici è contenuto all’art. 1123 c.c. Il primo comma della norma statuisce che le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diverso accordo. Il secondo comma precisa poi che, se si tratta di cose destinate a servire i condomini in maniera diversa, le spese sono ripartite in proporzione all’uso che ciascuno può farne.

A questo criterio generale se ne affiancano altri più specifici.

L’art. 1125 c.c. prevede infatti che le spese per la manutenzione e la ricostruzione di soffitti, volte e solai sono sostenute dai proprietari dei due piani l’un l’altro sovrastanti in parti uguali.

Restano invece a carico, rispettivamente, del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e di quello del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto.

Quanto ai lastrici solari (ovvero a quelle porzioni di fabbricato che hanno funzione di copertura dell’edificio), l’art. 1126 c.c. prevede che qualora l’utilizzo (anche di una sola porzione) degli stessi non sia comune a tutti i condomini, i costi per eventuali riparazioni o manutenzione gravano per un terzo su chi ne ha l’uso esclusivo e per i restanti due terzi su tutti i condomini o su quelli a cui il lastrico serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.

Più precisamente:

- se il lastrico solare è di proprietà del condominio e quindi svolge la sola funzione di copertura, le spese andranno ripartite tra tutti i condòmini.

     -  se il lastrico solare è in uso esclusivo o di proprietà esclusiva di un solo condòmino , questi dovrà contribuire alle spese per 1/3, mentre la cifra restante pari a 2/3 andrà suddivisa tra tutti gli altri condòmini.

     -  se chi ha l’uso esclusivo del lastrico è anche proprietario di una delle unità immobiliari sottostanti, vi sarà l’obbligo della doppia contribuzione ovvero il predetto proprietario dovrà pagare 1/3 delle spese per l’uso esclusivo del lastrico e 2/3 delle spese in proporzione al valore millesimale della porzione di appartamento coperta dal lastrico. 

        Spero che l'argomento possa esservi utile e vi aspetto al prossimo caffè. Buona giornata!

        (Un caffè con l'avvocato del 26 agosto 2020)



Benvenuti al nostro caffè del mercoledì.


L'argomento di oggi è "Rottura della tubatura dell’acqua in condominio: chi paga?"

Tra i problemi principali che possono verificarsi in casa c’è la rottura del tubo dell’acqua. In questo caso occorre capire di chi è la responsabilità, specialmente se si vive in condominio.

Al riguardo, il legislatore ha inserito una norma nel codice civile molto chiara. Secondo l’articolo 2051 del codice civile “il presunto responsabile dei danni che derivano a terzi da un determinato bene è il soggetto che di tale bene ha la custodia”.

Ed ancora, L’articolo 1117 del codice civile stabilisce che tutti gli impianti, le opere e i manufatti, se destinati a uso comune, sono di proprietà del condominio ma, nello stesso tempo, la proprietà del condominio cessa nel momento in cui le installazioni si diramano per servire singole unità abitative.

Di conseguenza, in ragione del principio di cui all’art. 2051 c.c., nell’ipotesi in cui le infiltrazioni provengano dalla rottura di un tubo di proprietà del condominio o, comunque, posto in un qualsiasi altro bene comune, il responsabile per i danni che da tale evento derivino al proprietario dell’alloggio sarà il condominio stesso, in quanto è proprio quest’ultimo il soggetto giuridico titolare e custode del bene. Ragion per cui, il condominio dovrà farsi carico dei lavori di ristrutturazione e rispondere del risarcimento degli eventuali danni subiti da mobili ed arredamenti in genere. Tale conclusione appare obbligata essendo il condominio “custode” delle parti comuni dell’intero edificio e, dunque, il soggetto titolare del dovere di manutenzione.

E, sempre in applicazione del medesimo principio, se le infiltrazioni provengono da tubature appartenenti ad un singolo condomino sarà costui a dover risarcire gli eventuali danni che ne siano derivati a soggetti diversi. Il principio posto alla base di tale conclusione è il medesimo: poiché il proprietario dell’immobile è anche custode del bene, quest’ultimo è da ritenersi responsabile dei danni cagionati dal bene stesso a terzi.

A questo punto, alla luce dell’art. 1117 c.c., occorrerà distinguere tra tubature condominiali e tubature private.

In generale si può asserire che i tubi che passano all’interno dell’appartamento sono considerati di proprietà privata quando si tratta di tubature che scorrono nel pavimento, o nei muri tra una stanza e l’altra.

Per tubature condominiali si intendono, invece, quelle verticali che collegano le varie abitazioni del palazzo.

Pertanto, in ragione di quanto innanzi esplicitato, le tubature di adduzione sono di proprietà condominiale sino a quando non incontrano i contatori dei singoli condomini, mentre quelle di scarico lo sono sino a quando non si collegano con i tubi dei vari appartamenti. Se le infiltrazioni provengono da tubature di proprietà del singolo condomino è quest’ultimo a dover rispondere dei danni che ne siano derivati.

Secondo quanto definito dal legislatore è facile comprendere che, per individuare il responsabile dei danni causati da un tubo d’acqua rotto nel muro, occorrerà individuare il soggetto custode del bene. Il codice civile è molto chiaro in merito stabilendo che per le tubature comuni sono titolari tutti i condomini che quindi dovranno pagare il danno anche a terzi in maniera proporzionale.

È bene precisare, poi, che laddove trattasi di tubature di pertinenza di un immobile concesso in locazione, secondo la giurisprudenza, il proprietario dell’immobile conserva la custodia delle strutture murarie e degli impianti che in esse siano conglobati, mentre è il conduttore a divenire custode degli accessori e delle altre parti di un bene locato. Quindi l’inquilino è responsabile per le eventuali infiltrazioni d’acqua derivanti dalla rottura di un tubo flessibile esterno all’impianto idrico, che poteva essere sostituito senza demolizioni. Non lo è in caso di rottura di una tubatura all’interno della pavimentazione (sentenza numero 21788/2015 della Corte di Cassazione).

Si evidenza, a tal uopo, che nella maggior parte dei casi i condomini  sono  coperti da un’Assicurazione Condominiale, ovvero da un tipo di polizza che copre un’ampia gamma di danni da acqua, come quelli causati da infiltrazioni, rottura tubi e molti altri ancora. Tuttavia esistono delle circostanze, e quindi delle particolari tipologie di rotture dei tubi, che non sono coperte dalla Polizza Globale Fabbricati.

Inoltre è bene ricordare che  l’Assicurazione Condominio prevede sempre una franchigia per danni causati da perdite d’acqua, in ragione della quale una parte dell’importo da destinare alla riparazione del danno resta a carico del condominio o dell’inquilino responsabile, mentre il resto sarà pagato dalla società.

Pertanto, se l’acqua proviene dalla rottura di una tubatura condominiale, i danni saranno coperti dalla polizza globale fabbricati e il costo della franchigia verrà ripartito tra i vari abitanti dello stabile.

Se, invece, l’acqua proviene dalla rottura di una tubatura privata, sarà sempre la compagnia a procedere con il rimborso delle spese di riparazione ma il costo della franchigia è interamente a carico del condomino che ha causato il danno.

Sperando che l’argomento trattato possa esservi utile, rinnovo l‘appuntamento con “un caffè con l’avvocato” a mercoledì prossimo. Vi aspetto in tanti. Ciao!!!  

(un caffè con l'avvocato del 19 agosto 2020)


Benvenuti al nostro caffè del mercoledì.


Oggi parleremo di “Come si ripartiscono le spese condominiali tra proprietario e inquilino?

 

Quante discussioni fra inquilini e proprietari nascono sulla ripartizione delle spese sia condominiali che di manutenzione o riparazioni varie. Spesso diventano vero e proprio  motivo di controversie condominiali e, in certi casi,danno addirittura origine a lunghe ed insidiose azioni giudiziarie.

 

In caso di affitto sorge sempre il dubbio su come si ripartiscono le spese condominiali: proprietario o inquilino? Di fatto, le spese condominiali non vengono ripartite in base ad accordi privati tra inquilino e proprietario, bensì in base a una normativa molto ampia in merito al rapporto di locazione in essere.

 

Di seguito cercherò di fare il punto della situazione e spiegare in breve con quali criteri avviene la ripartizione delle spese condominiali tra proprietario e inquilino.

 

I criteri che disciplinano la ripartizione delle spese sono dettati, in primo luogo, da quanto stabilito nei regolamenti condominiali e, in secondo luogo, se i regolamenti non contengono regole in merito, dalle norme contenute nel Codice Civile.

 

Il Codice Civile, all’articolo 1576, delinea le due macrocategorie principali di spesa: quelle ordinarie e quelle straordinarie, stabilendo che “il locatore deve eseguire, durante la locazione, tutte le riparazioni necessarie, eccettuate quelle di piccola manutenzione che sono a carico del conduttore.”

 

In linea generale, quindi,  il proprietario è tenuto a sostenere tutte le spese per la manutenzione straordinaria  e l’inquilino deve provvedere ai piccoli interventi di manutenzione ordinaria. Nella Legge 392/78 che disciplina la locazione immobiliare urbana, vengono specificate ulteriori ripartizioni di spesa. Verifichiamo due concetti base: chi paga le spese condominiali e chi le spese dell’immobile.

 

Le spese condominiali sono a carico dell’inquilino  e comprendono tutte le spese relative alla gestione degli spazi condivisi, definite manutenzione ordinaria:

  • i servizi di pulizia delle scale;
  • la fornitura di acqua, di energia elettrica e l’eventuale condizionamento e riscaldamento delle parti in comune;
  • la manutenzione dell’ascensore.

 

Sono invece a carico del proprietario le spese di straordinaria manutenzione e cioè quelle, ad  esempio, dovute per il rifacimento degli impianti o delle facciate.

 

La parte responsabile nei confronti del condominio è sempre il proprietario, perseguibile legalmente in caso di mancato pagamento anche dell’affittuario.

 

Qualora l’inquilino venga meno a tale obbligo, il locatore può esercitare il diritto di rivalsa su quest’ultimo, chiedendo il rimborso delle spese sostenute; in questo caso l’inquilino ha 60 giorni di tempo per provvedere al pagamento. In caso di mancato assolvimento di tali oneri per oltre due mensilità, il proprietario può richiedere la risoluzione del contratto.

 

Le spese di piccola manutenzione relative all’immobile sono a carico del conduttore. In sostanza egli deve provvedere a  tutte le spese dovute a riparazione causate dal normale deterioramento o uso del bene. A titolo esemplificativo:

  • le riparazioni degli impianti idrici o elettrici;
  • la riparazione degli apparecchi di servizio di riscaldamento o condizionamento;
  • la manutenzione di strutture  e rivestimenti quali i  pavimenti, le pareti e il soffitto.

 

Il proprietario deve, invece, sostenere le spese per eventi non previsti ed imprevedibili, non evitabili attraverso le comuni opere di manutenzione ordinaria, e quelle dovute al deterioramento del bene. Sono a suo carico  anche le spese sostenute per l’adeguamento dell’immobile alle normative vigenti.

 

Infine, è utile ricordare che se l’inquilino è costretto ad accollarsi spese per riparazioni urgenti, che dovrebbero essere a carico del locatore, egli può richiederne il rimborso a quest’ultimo previa immediata  comunicazione dei costi sostenuti.

 

Pertanto, alla luce di quanto innanzi, possiamo asserire che quando la casa è in affitto alcune delle spese condominiali sono a carico del locatore (proprietario) ed altre del conduttore (inquilino) il quale, pertanto, oltre al normale canone di locazione dovrà corrispondere anche gli oneri accessori.

 

È bene precisare che le parti possono comunque stabilire, nel contratto di locazione, una diversa ripartizione delle spese con l’obbligo, naturalmente, di provvedere ad effettuare direttamente il pagamento delle spese che sono rispettivamente di loro competenza.

 

Con L’auspicio che l’argomento sia stato di Vs. gradimento, Vi rinnovo l’appuntamento a mercoledì prossimo sempre con la ns. rubrica “un caffè con l’avvocato”. Ciao


(da un caffè con l'avvocato-pagina fb Studio Legale Avv. Maria Immacolata Sica del 12 agosto 2020)





Benvenuti al nostro consueto caffè settimanale.

 

Oggi parleremo di “ diritto al risarcimento danni del terzo trasportato di un sinistro stradale

 

Nel caso di sinistro stradale può accadere che il c.d. trasportato, cioè il soggetto che è a bordo di uno dei mezzi coinvolti nell’incidente e che non è alla guida, riporti delle lesioni o comunque dei danni a cose di sua proprietà.

 

Il Codice delle Assicurazioni Private prevede fondamentalmente due differenti procedure di risarcimento del danno: la prima, cosiddetta “ordinaria”, da esperire contro l’assicuratore del responsabile del sinistro, anche nel caso in cui lo scontro sia avvenuto con veicolo immatricolato all’estero, disciplinata dagli articoli 145 e 148; e la seconda, definita di risarcimento diretto, promossa direttamente dal danneggiato nei confronti della propria compagnia assicurativa, che trova la sua base normativa nell’articolo 149.

 

A queste, però, si affianca una terza fondamentale azione volta proprio alla tutela del terzo trasportato, c.d. azione di risarcimento promossa dal terzo trasportato da avviare verso l’impresa assicurativa del veicolo su cui viaggiava al momento del sinistro.

 

Infatti, il terzo trasportato che si avvale dell’articolo 141 del Codice delle Assicurazioni Private, vedrà risarcito il danno subito - salva l’ipotesi di sinistro cagionato da caso fortuito - “dall’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro entro il massimale minimo di legge, fermo restando quanto previsto dall’articolo 140, a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti […].

 

L’art. 141 Cod. Ass. consente, dunque, al trasportato danneggiato, pur essendo egli un terzo estraneo al rapporto assicurativo, un’azione diretta verso l’assicuratore dell’auto su cui viaggiava.

Un limite alla risarcibilità da parte dell’assicuratore del vettore, tuttavia, è rappresentato dal “caso fortuito”.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha rilevato che la nozione di “caso fortuito” utilizzata dal legislatore deve essere innanzitutto interpretata in senso giuridico, ossia comprensiva non solo di ogni evento naturale e imprevedibile, ma anche della condotta umana idonea a causare l’evento.  Pertanto l’espressione “salvo il caso fortuito” non deve indurre a ritenere che l’art. 141 contempli una sorta di responsabilità oggettiva del conducente, ma va considerata sotto un profilo processuale inerente all’onere della prova. Con la sentenza n. 4147 del 13/02/2019, ha infatti puntualizzato che: “se il legislatore avesse inteso oggettivizzare la responsabilità dell’assicuratore del vettore, sarebbe stato logico - e più che mai per l’incipit sul caso fortuito - che l’inciso in questione fosse stato: ‘a prescindere dall’accertamento della responsabilità del conducente’, mentre ha usato l’accezione ‘salvo il caso fortuito’ “.

Pertanto, Il vantaggio procedurale che il terzo trasportato ne trae consiste nella facoltà di esercitare l’azione indipendentemente dall’accertamento del responsabile del sinistro e, in caso di illecito imputabile a più soggetti, indirizzarla indistintamente nei confronti di uno di essi. In proposito si segnala la recente pronuncia chiarificatrice della Suprema Corte: Il trasportato su un veicolo a motore che abbia patito danni in conseguenza di un sinistro ascrivibile alla responsabilità tanto del vettore, quanto del titolare di un terzo veicolo, affinché possa pretendere il risarcimento integrale da uno qualsiasi tra i due responsabili (e dai loro assicuratori della r.c.a.) o da entrambi, in virtù del principio generale della solidarietà tra i coautori di un fatto illecito di cui all’art. 2055 c.c., deve indicare la propria qualità di trasportato nella ‘causa petendi’ della domanda risarcitoria, allegando che, proprio in quanto trasportato, ha diritto all’integrale risarcimento e può chiederlo a sua scelta a ciascuno dei responsabili“. (Cassazione civile, sez. VI, 17/06/2019, n. 16143).

Alla luce di quanto innanzi, dunque, si può asserire che il legislatore se da un lato ha riconosciuto al terzo trasportato  il diritto a richiedere il ristoro dei danni subiti, dall’altro ha previsto  una disciplina di favore per consentirgli di ottenerlo nel modo più veloce possibile. 

 

Infatti, la procedura da seguire per ottenere la liquidazione dell’indennizzo è, come indicato nel comma terzo dell’articolo 141, quella prevista per il risarcimento ordinario dall’articolo 148 e si applica ai sinistri avvenuti nel territorio della Repubblica tra due o più veicoli a motore (cosiddetti sinistri multipli) identificati e coperti da assicurazione obbligatoria coprendo tanto i danni alle cose trasportate di sua proprietà, tanto i danni alla persona e può essere sintetizzata così come segue:

 

1. il danneggiato deve inviare, tramite lettera raccomandata, una richiesta di risarcimento che deve contenere una serie di dati necessari per consentire alla Compagnia di effettuare un’offerta. 

2.      Entro 90 giorni dal ricevimento della documentazione la Compagnia assicuratrice è obbligata a formulare al danneggiato un’offerta di risarcimento oppure comunicare al danneggiato i motivi per i quali ritiene di non formulare nessuna offerta (si pensi al caso in cui la Compagnia ritiene che il sinistro non sia mai avvenuto). Il termine è ridotto a 60 giorni nel caso in cui il danneggiato abbia subito solo danni a cose.

 

3.  Se la Compagnia formula l’offerta, il danneggiato può accettare e di conseguenza la Compagnia deve procedere al pagamento entro 15 giorni dal momento in cui riceve l’accettazione; il danneggiato può non accettare l’offerta ma la Compagnia dovrà comunque procedere al pagamento dell’importo previsto nell’offerta medesima entro 15 giorni; il danneggiato può non  pronunciarsi entro 30 giorni dal momento in cui riceve l’offerta e la Compagnia dovrà anche in questo caso procedere al pagamento dell’importo previsto nell’offerta medesima entro 15 giorni. La somma, negli ultimi due casi, potrà essere considerata quale acconto rispetto al risarcimento complessivo.

 

4.  Qualora  il termine per effettuare l’offerta (di 60 o 90 giorni a seconda delle situazioni) sia  scaduto senza che la Compagnia abbia comunicato le sue intenzioni, il danneggiato prima di ricorrere al Giudice dovrà avviare la procedura per la negoziazione assistita, al fine di trovare una soluzione amichevole con la Compagnia assicuratrice.


5.  Attendere l'ulteriore decorso dei 30  giorni, previsto dall'art. 3 D.L. 132/2014, e nel caso di  silenzio della controparte, l’invito si intenderà rifiutato e si potrà dare avvio all'azione giudiziaria ricorrendo al Giudice , sia esso il Giudice di Pace o il Tribunale, a seconda dell’importo del danno.


Tenuto conto della complessità della materia di cui trattasi, si consiglia vivamente di rivolgersi e farsi assistere  fin da subito da un avvocato al fine di richiedere ed ottenere il giusto risarcimento.

 

Con l’auspicio che l’argomento di oggi sia stato di Vs. gradimento, vi rinnovo l’appuntamento al prossimo  “ caffè con l’avvocato”. 

Vi auguro di cuore una serena giornata. Ciao


(da un caffè con l'avvocato-pagina fb Studio Legale Avv. Maria Immacolata Sica del 29 luglio 2020)




Benvenuti al nostro consueto caffè!

Oggi parleremo di “Risarcimento danni causati da pneumatico o copertone abbandonato sulla carreggiata autostradale: chi paga?

L’articolo 2051 del Codice Civile, sulla responsabilità per i beni in custodia, trova applicazione per gli oggetti incustoditi sulla carreggiata di strade ed autostrade? La giurisprudenza ritiene di sì. Nei casi di danni al veicolo per oggetti sulla carreggiata di strade e autostrade, l’Ente gestore è chiamato a rispondere dei danni e a risarcire il conducente, salvo il caso fortuito.

Pertanto, La presenza di corpi estranei in autostrada, qualora siano causa di sinistri, determina la responsabilità in capo all’ente gestore, il quale ha l’onere di mantenere la strada in condizioni tali da garantire la massima sicurezza della percorribilità. Questo sta a significare che il predetto dovrà intervenire prontamente in ogni circostanza in cui possa derivare una situazione di grave pericolo, rimuovendola nel più breve tempo possibile.

Al riguardo la Cassazione è chiara “piena configurabilità del rapporto custodiale tra costoro e la struttura autostradale, in ragione della destinazione della rete viaria alla percorrenza veloce in condizioni di massima sicurezza per gli utenti.” (Corte di Cassazione, 7 Aprile 2009, n. 8377) ed ancora “Risponde il gestore del servizio autostradale, ex art. 2051 c.c., del danno provocato all'automobilista da un copertone abbandonato sulla carreggiata; il custode, per liberarsi dalla responsabilità non dovrà solo dimostrare la propria diligenza nella custodia, ma dovrà provare che il danno è derivato da caso fortuito, che potrà consistere anche nella condotta di un terzo o del danneggiato stesso”( Corte di Cassazione,  sentenza n. 10893/2016).

Alla luce di quanto innanzi, dunque, possiamo asserire che sarà sempre possibile proporre una causa contro l’ente gestore della rete autostradale al fine di ottenere un risarcimento danni e questi, ai fini della prova liberatoria, dovrà dimostrare che: 1. La situazione di pericolo e il successivo incidente sia derivato da caso fortuito, ovvero dal verificarsi di un evento imprevisto ed imprevedibile. In particolare “il caso fortuito sussiste nel momento in cui non sia trascorso un tempo ragionevolmente sufficiente affinchè l’ente gestore venga a conoscenza del pericolo e possa intervenire per eliminarlo”; 2. Di aver eseguito con la necessaria diligenza il controllo della strada e la conseguente e necessaria manutenzione. In questo caso all’ente responsabile spetta un controllo visivo continuo  sulla qualità della manutenzione.

Ne consegue che il danneggiato che decide di agire per il riconoscimento del danno ha, quindi, l'onere di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, mentre il custode convenuto, per liberarsi dalla sua responsabilità, deve provare l'esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.

Pertanto, a carico dei proprietari o concessionari delle autostrade, per loro natura destinate alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, è configurabile la responsabilità per cosa in custodia, disciplinata dall'art. 2051 c.c., essendo possibile ravvisare un'effettiva possibilità di controllo sulla situazione della circolazione e delle carreggiate, riconducibile ad un rapporto di custodia. 

All’uopo si menzionano: a) la sentenza  n. 16/2013 del Giudice di Pace di Santhià (VC), con cui l’ente gestore dell’autostrada è stato condannato per i  danni occorsi a un veicolo a seguito della presenza di un copertone sulla sede stradale, avendo l’ente omesso la prova del caso fortuito ovvero la prova del corretto assolvimento al dovere di custodia; b) la sentenza del 07/07/12 del Giudice di Pace di Ottaviano con cui, avendo l’attore provato che il fatto si è verificato su un tratto autostradale,  avendo provato che sulla sede stradale vi era un pezzo di pneumatico  ed essendo stata omessa la prova del caso fortuito da parte della società convenuta; ovvero la prova del corretto assolvimento al dovere di custodia, è stato ritenuto provato il diritto della parte attrice al risarcimento; c) la sentenza del 7 aprile 2008 del Giudice di Pace di Marigliano, con cui è stata dichiarata la responsabilità della soc. Autostrade per i danni conseguenti all’incidente avendo l’attore  dimostrato l’evento dannoso ed il nesso eziologico tra detto evento e la cosa in custodia, mentre la convenuta sulla quale gravava una vera e propria presunzione di responsabilità, non ha offerto alcuna prova contraria liberatoria.

Alla luce di quanto innanzi, possiamo asserire che qualora un utente abbia subito danni a causa di oggetti giacenti sulla carreggiata di un’autostrada, potrà sempre presentare richiesta di risarcimento nei confronti della Società Autostrade ma, essendo i casi di contenzioso numerosi, il consiglio è quello di  contattare  un avvocato per valutare al meglio il caso specifico ed affrontare nel miglior dei modi la situazione.

Spero che l’argomento vi sia stato utile e non mi resta che rinnovare l’appuntamento al prossimo... “caffè con l’avvocato”. Ciao

(da un caffè con l'avvocato-pagina fb Studio Legale Avv. Maria Immacolata Sica del 22 luglio 2020)



Oggi parleremo di RISARCIMENTO DANNI DA INCIDENTE STRADALE: cosa fare per ottenere il giusto risarcimento?


Molto spesso si sente parlare di sinistro stradale e di tutte le conseguenze ad esso legate. Ma che cosa vuol dire esattamente sinistro stradale? Possiamo dire che trattasi di sinistro stradale allorquando  il  danno  rappresenta la conseguenza immediata e diretta cagionata da un veicolo a motore in circolazione.

Il principio del risarcimento danni di un incidente stradale trova il suo fondamento nell’art. 2043 del Codice Civile, secondo cui “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”, ovvero, per legge, chi provoca un danno ad altri, anche senza l’intenzione o la volontà ma con colpa, deve risarcirlo

Nel caso in cui si resta coinvolti in un incidente avvenuto tra veicoli a motore, per i quali vi sia obbligo di assicurazione, i conducenti dei veicoli coinvolti o, se persone diverse, i rispettivi proprietari dovranno rispettare una precisa procedura e relativa tempistica. 

Di seguito, in breve, spiegherò l’iter da seguire qualora si resta vittime di un incidente stradale e si decida di procedere per ottenere il risarcimento dei danni subiti dal veicolo o a cose.

 

  1. denunciare l’incidente stradale entro 3 giorni dall’evento dannoso, mediante compilazione del modulo CAI (Constatazione Amichevole di Incidente), il quale, se firmato congiuntamente dai conducenti coinvolti nell’incidente, fa presumere, sino a prova contraria, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dallo stesso.
  2. compilare la denuncia di sinistro se non vi è accordo tra i soggetti.  Il modulo, debitamente redatto in ogni sua parte, serve anche alla compagnia assicurativa per accertare le cause e le responsabilità e procedere tempestivamente alla liquidazione del danno. È importante sottolineare che la denuncia di sinistro deve essere inviata dall'assicurato entro 3 giorni tramite raccomanda con ricevuta di ritorno o tramite posta elettronica certificata.
  3. Inoltrare, a mezzo lettera raccomandata A.R.,  la richiesta di risarcimento danni, al fine di mettere formalmente in mora la compagnia di assicurazione tenuta alla liquidazione del danno. Infatti,  è solo con la consegna di una richiesta di risarcimento che scattano i termini fissati dal legislatore a carico dell’impresa assicurativa per formulare un’offerta risarcitoria.
  4. Attendere 30 giorni, nel solo caso di  modulo CAI a doppia firma oppure 60 giorni se il modulo CAI è firmato da un solo conducente, 90 giorni in caso di lesioni;
  5. Entro i termini sopra indicati, la compagnia assicurativa dovrà formulare un’offerta di “risarcimento incidente stradale” al danneggiato che, se dallo stesso è ritenuta congrua, gli dovrà essere corrisposta entro 15 giorni dal ricevimento della comunicazione. Se, invece, il danneggiato rifiuta l’offerta, l’assicurazione sarà comunque tenuta a corrispondere la somma offerta ed il danneggiato potrà trattenerla a titolo di acconto sulla maggiore somma risarcitoria dovuta ed adire, se del caso, l’autorità giudiziaria per il riconoscimento della differenza.
  6. In caso di diniego dell'offerta risarcitoria ovvero di liquidazione ritenuta non soddisfacente,  si dovrà avviare la procedura per la negoziazione assistita.  L'invito, redatto per iscritto a pena di nullità - sottoscritto dalla parte personalmente con firma autenticata dal difensore - deve specificare l'oggetto della controversia con l'avvertimento che la mancata risposta all'invito entro trenta giorni dalla ricezione, o il suo rifiuto, può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio, della responsabilità aggravata (art. 96 cpc) e dell'esecuzione provvisoria (art. 642 cpc).
  7. Attendere l'ulteriore decorso dei 30  giorni, previsto dall'art. 3 D.L. 132/2014, e nel caso di silenzio della controparte, l’invito si intenderà rifiutato e si potrà dare avvio all'azione giudiziaria.
  8. A questo punto va chiarito a chi rivolgere la richiesta di risarcimento danni e l’invito alla negoziazione. Orbene, se nell’urto sono state coinvolte solamente due vetture entrambe immatricolate in Italia, e non vi sono danni a persone che abbiano cagionato un danno biologico di invalidità permanente superiore al nove per cento, si applicherà il risarcimento o indennizzo  diretto alla compagnia assicuratrice del danneggiato. Negli altri casi, invece, la richiesta di risarcimento e invito alla negoziazione assistita andranno inviati all’assicurazione della controparte, cioè di chi ha causato il sinistro.
  9. Da non dimenticare, inoltre, quelli che sono i termini di prescrizione del diritto  al risarcimento del danno prodotto dalla circolazione, ovvero 2 anni dal fatto per l’azione civile e 5 anni se l’azione del responsabile è qualificata non solo come illecito civile bensì come reato. 

Tenuto conto della complessità della materia, si consiglia di rivolgersi ad un avvocato non solo nel caso in cui si decida di instaurare una causa civile o penale per ottenere il risarcimento, ma anche nella fase delle trattative con la compagnia assicurativa, al fine di non incorrere in errori che possano pregiudicare il buon esito della procedura.

 

Per quest’oggi la nostra rubrica è terminata, spero di essere stata chiara ed esaustiva e vi aspetto al prossimo appuntamento per affrontare insieme un nuovo argomento.

Vi lascio una buona e serena giornata.

 

(da un caffè con l'avvocato-pagina fb Studio Legale Avv. Maria Immacolata Sica del 15 luglio 2020)





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